C’era un’atmosfera surreale, un po’di giorni fa, all’Università. Anche nei dintorni dell’edificio, le strade milanesi parevano congelate in un fermo immagine.

Gli appelli d’esame si sono aperti con tre lunghi minuti di silenzio. Poi, gli adempimenti dell’Ateneo incalzavano spediti. Uno ad uno, gli studenti venivano chiamati a conferire.

Ventotto, ventiquattro, diciotto, trenta, ventisette: ognuno riceveva il suo voto e quasi s’identificava con quel numero, mentre veniva compilata un’altra riga del libretto.

Vocii concitati riempivano l’aula, ma la tensione non era legata soltanto alla prova d’appello. L’aria era rarefatta e il freddo pungente del primo giorno di febbraio pareva penetrare fin dentro l’istituto, fin dentro le ossa.

A pochi metri dall’aula, tra le mura di uno dei bagni, c’era ancora l’eco di un grido. Il grido di chi non ce l’ha fatta più a far parte del sistema.

Tutte le  fragilità, tutte le inquietudini, tutte le frustrazioni erano venute a galla e non c’era più verso di tenerle a bada. Lei aveva provato a zittirle, ma a diciannove anni ogni piccolo ostacolo può sembrare un gigante insormontabile.

“Ho fallito negli studi e nella vita” ha scritto in un biglietto d’addio, scusandosi con i suoi genitori per non essere stata in grado di compiere il suo dovere di studentessa.

Quindi, ha avvolto il suo collo in una sciarpa, stringendo ben bene,  come se così facendo potesse reprimere tutte le sofferenze che l’avevano portata lì.  Lì, da sola, tra le mura di un bagno della sua università, con il collo stretto nella morsa della sciarpa, persa nel fitto tramestio dei suoi pensieri,  fino a esalare l’ultimo respiro.

A trovarla, alle prime luci dell’alba, un custode. Così, il Senato Accademico, riunito in seduta straordinaria, ha deliberato la sospensione delle lezioni,  invitando a tre minuti di silenzio prima delle sedute d’esame, comunque confermate.

The show must go on, lo spettacolo deve continuare, ma fa strano pensare allo scorrere della quotidianità, dinanzi a una tragedia del genere. Che non è la prima e, purtroppo, vien da pensare che non sarà nemmeno l’ultima, se prima o poi non cambierà qualcosa.

Il sistema scolastico italiano fa acqua da tutte le parti, anno dopo anno affonda  in abissi sempre più profondi.

E con esso, affondiamo tutti noi, adulti, giovani e bambini, come in una grande reazione a catena, perché se la scuola non funziona come si deve, va tutto a rotoli e l’intero paese viene investito da questa inefficienza.

Siamo tutti un po’ responsabili di quanto è accaduto nei giorni scorsi in un’università di Milano.

Siamo tutti vittime e carnefici perché subiamo ma, al tempo stesso, pratichiamo un sistema che addita come elemento valido e meritevole chi studia e ha un buon profitto, mentre chi per innumerevoli  motivazioni viene meno a questo modello imperativo è destinato a soccombere. A sentirsi un fallito, un poco di buono. E non mi riferisco soltanto agli atenei ma a tutte le scuole di ogni ordine  e grado. A partire già dal triennio dell’infanzia, quando  spesso gli insegnanti lodano soltanto chi a parer loro rende di più, chi è più lesto,  pronto a sostenere il passaggio al percorso successivo. E poi, nei cinque anni della primaria, ecco subentrare i giudizi, i voti, i compiti punitivi, le competizioni.

Chi resta fermo è perduto.  Poco importa se ha tante altre qualità, altri talenti da coltivare; poco importa se ha i suoi tempi; non sempre chi è dietro la cattedra sa dosare i saperi e le metodologie didattiche rispettando le diverse fasi di apprendimento. Che a pensarci siano i genitori! Pazienza se lavorano anche di pomeriggio o se hanno più figli. Che li seguano di più: a scuola le classi sono numerose, non si può certo provvedere come si deve a chi resta indietro. Così, migliaia di famiglie assistono impotenti allo sfracello della loro pace domestica e le case nel pomeriggio diventano campi di battaglia, tra barricate di libri, pile di quaderni, matite volanti, improperi e questioni. Ma quando il genitore riesce a star dietro ai propri figli, rischia di entrare suo malgrado nel vortice del sistema competitivo  e si ritrova a proiettare in loro grandi aspettative, sovraccaricandoli di un ulteriore peso.

L’iter si complica ancor di più  nelle scuole secondarie di I e II grado. Lì entrano in gioco i numeri: che media hai? Quanto vali? Due, quattro, sei, sette, nove? Numeri stabiliti da persone, con tutti i possibili margini di errore, specie quando si tiene conto soltanto della fattività in termini di studio e rendimento, senza valutare e incoraggiare anche altre attitudini. E chi è più fragile, arranca. Ma spesso nemmeno gli “alunni modello” hanno vita facile, sottoposti come sono all’ansia di venir meno alle prestazioni scolastiche, rischiando di scivolare giù dal podio di “primo della classe”.

Sì, siamo tutti un po’ colpevoli se una ragazza di diciannove anni che dovrebbe prendere la vita a morsi si lascia morire sovrastata dall’idea di aver fallito.

Ministri, parlamentari, garanti dell’istruzione, ma anche genitori e insegnanti di tutti gli ordini e gradi. Siamo tutti responsabili e adesso non possiamo far altro che stringerci al dolore inconsolabile dei genitori di questa giovane studentessa. Ma affinché la sua scomparsa non resti vana, dovremmo provare a cambiarlo questo sistema,  uscendo dalla visione distorta inculcataci in tutti questi anni.

In attesa di una seria riforma del sistema scolastico italiano, impariamo ad accantonare voti e giudizi negativi, per dedicarci di più alla felicità e all’integrazione sociale dei nostri figli.

Nessuno studente dovrebbe sentirsi un fallito.

Non esistono fallimenti a diciannove anni. C’è tutta una vita davanti per intraprendere altri percorsi più congeniali alle proprie inclinazioni.

A fallire, piuttosto, è la scuola, incapace com’è di trasmettere questi fondamentali insegnamenti di vita.

Mariaelena Castellano