“Qui dove il mare luccica” nasce come interpretazione di “Caruso”, l’indimenticabile capolavoro di Lucio Dalla.

Ispirata dalle intense suggestioni del cantautore bolognese, ho immaginato gli ultimi giorni di vita del grande tenore napoletano. Quasi mi è parso di vederlo, mentre ammirava il mare di Sorrento, intento a ripercorrere tutta la sua vita, oramai vicina alla fine…

 

“Qui dove il mare luccica”

Hotel Vittoria, 27 luglio 1921

Voglio che il mio canto arrivi ovunque: nelle case, tra i vicoli e le piazze e, poi, fin giù al mare… Il mare di Sorrento, così pieno di luccichii, così maestoso.

“Enrico, non cantare, non affaticarti. Perlomeno non in terrazza, c’è vento stasera”, sussurra Dorothy con voce tremula, rotta dal pianto.

“È solo un po’di brezza”, ribatto.

Finché avrò la forza di cantare, la mia vita non finirà. Non adesso e non qui.

“Questo mare è incantevole, voglio cantare per lui”, aggiungo.  La mia giovane moglie annuisce, sa che non potrà dissuadermi. I suoi occhi velati di tristezza s’impigliano nei miei. Mi avvicino a lei per abbracciarla, ho un gran bisogno di tenerla stretta a me.

Torno al pianoforte, intono la voce e canto come mai prima d’ora:

Vide ‘o mare quant’è bello…

Canto, ma sento la morte vicina. Prova a sedurmi, vuole convincermi che sarà un bene per me, che darà pace ai miei affanni. Eppure, il mio canto è così vivo, così forte, da tenermi ancora lontano dalla fine.

Quante luci sul mare. Le lampare brillano sparpagliate lungo i solchi schiumosi lasciati da un’elica. Sembrano le luci di New York. Sì, mi pare quasi di essere di nuovo lì: la tournée, il Metropolitan gremito, gli applausi. Poi, proprio in America, l’inizio della fine.

La vita sa stupire: mi ha donato tanto e adesso… Adesso vuole sottrarmi ogni cosa.

Nun darme ‘stu turmiento…

Non posso più cantare, il male che ho dentro divampa. Sento una fitta comprimermi il petto, la gola brucia, gli ultimi afflati di voce evaporano. Affondo le dita sui tasti del piano, li schiaccio con veemenza e un suono greve, cupo come i miei pensieri, si propaga nell’aria. Tutto sembra perduto, ormai.

Poi, scorgo la luna. E´ apparsa all’improvviso, nascosta com’era tra le nuvole. Troneggia nel cielo e riflette sul mare i suoi scintillii argentati. Sorrido. Provo ancora stupore per le meraviglie del creato e persino la morte, adesso, sembra essermi amica. Cerco gli occhi di Dorothy, mi perdo nelle sue iridi verdi come il mare. Un groppo in gola comprime tutte la commozione che ho dentro, solo qualche piccola lacrima a inumidirmi il viso.

Non ci sono farse adesso; nessuna maschera, nessun travestimento. Sul palco ho vestito i panni di altri personaggi, fino a mettere da parte me stesso, quasi dimenticando chi fossi.

In questi attimi, invece, rivedo tutta la mia vita. Scorre veloce, le immagini incalzano in nitide sequenze; poi, pian piano, si dissolvono in visioni sfocate e nulla sembra più così importante, nemmeno le notti in America, le tournée, i teatri, gli applausi. Nulla più.

Adesso tutto sembra avere un senso: contano solo questi suoi occhi verdi, così intensi e pieni di vita; conta solo il sentimento che ho dentro: mi scorre nelle vene, è forte come una catena, così forte da togliere il fiato.

E´ la vita che finisce, ma oramai non temo più nulla. Torno al pianoforte e continuo il mio canto:

Vide ‘o mare de Surriento, che tesore tene ‘nfunno, chi ha girato tutt’ ‘o munno, nun l’ha vist comm’acca. Guarda, attuorno, sti’ Ssirene, ca me guardano ‘ncantate, e mè vonno tantu bene, me vulessero vasà. Ma io dico: “Io parto, addio” …

Mariaelena Castellano