Verso la metà del II millennio a.C., quando Creta vive una fase di grande fioritura culturale, nella vicina isola di Thera (attuale Santorini), una violenta eruzione vulcanica provoca una serie di terremoti e maremoti, che con ogni probabilità colpiscono anche il territorio cretese, con il conseguente avvio di una fase di decadenza dell’isola.
Proprio in questo periodo, la Grecia continentale viene invasa da un popolo indoeuropeo, gli Achei, detti anche Micenei (dal nome della città di Micene), che presto impongono il loro dominio in tutto l’Egeo e nel Mediterraneo. Creta si ritrova così nell’orbita delle mire espansionistiche micenee e la raffinata cultura minoica viene assorbita dai nuovi conquistatori.
Gli Achei parlano una lingua molto vicina al futuro idioma greco e nella loro società, dominata dalla figura del re, il potere è gestito anche da un’affermata classe aristocratica militare. Si tratta, infatti, di una civiltà dallo spiccato carattere guerriero, come ricordano le gloriose gesta narrate nei celebri poemi omerici dell’Iliade e dell’Odissea(*).
Si deve all’archeologo tedesco Heinrich Schliemann la ricognizione e l’approfondimento della cultura achea.
Lo studioso, affascinato dalla mitologia epica della guerra di Troia, dedicò gran parte della sua carriera agli scavi condotti nel Peloponneso e nell’Asia minore, per tentare di rintracciare l’eco delle imprese eroiche di Achille e degli altri leggendari personaggi cantati da Omero.
Per agevolare lo studio di questa civiltà, gli storici ne distinguono tre fasi:
Miceneo antico (1.600-1.500 a.C.), caratterizzato da una limitata attività costruttiva e da una forte influenza della cultura cretese, specie nelle arti figurative.
Miceneo medio (1.500-1.400 a.C.), segnato da un’intensa operosità edificatoria.
Miceneo tardo (1.400-1.100 a.C.), distinto per le grandi opere architettoniche e per le maestose strutture difensive.
A differenza delle città cretesi, libere e aperte, quelle achee (quali Micene, Tirinto, Argo) hanno un marcato carattere di “città-fortezza”, segnato dalla presenza di poderose mura difensive. Tali cinte murarie sono costituite da colossali blocchi di pietra dal taglio irregolare o tendente alla forma parallelepipeda e si ergono, imponenti, intorno al centro abitato.
Nella parte più alta della città trova posto l’acropoli (dal greco akros, alto, e polis, città), che ospita il monumentale palazzo del sovrano e i principali edifici pubblici. Inoltre, in caso di assedio, nell’altura si fornisce riparo alla popolazione.
Il palazzo regale è incentrato sul mégaron, l’ambiente più interno, adibito a sala del trono e sede del consiglio, spesso arricchito da decorazioni per il suo importante valore rappresentativo. E´caratterizzato dalla presenza di un focolare posizionato al centro, tra quattro colonne in legno con basi di pietra, poste a sostegno della copertura.
Tra le mura di Micene spicca la famosa Porta dei Leoni (XIV sec. a.C. circa), il principale ingresso della città, distinto da una rigorosa essenzialità delle forme. Si tratta di una struttura trilitica sormontata da una lastra triangolare decorata a bassorilievo con l’immagine di due leonesse rampanti, le cui zampe anteriori poggiano sul basamento di una colonna. L’impressione di semplicità dell’insieme non deve trarre in inganno, in quanto tutto è studiato con cura: dagli effetti chiaroscurali delle parti aggettanti, più illuminate rispetto a quelle rientranti, alla disposizione delle pietre atta a consentire un ottimale scarico del peso, in corrispondenza degli stipiti laterali della porta.
Sempre a Micene, sono state scoperte diverse tombe a tholos, di dimensioni imponenti.
Si tratta di ambienti a pianta circolare sormontati da una pseudocupola. L’accesso viene ricavato attraverso un corridoio (dròmos) scavato nel terreno, che immette nella sala circolare, da cui si accede, poi, alla camera funeraria vera e propria, di forma quadrangolare.
Tra le tombe più famose, si ricorda quella detta del Tesoro di Atreo, mitico re di Micene, padre di Agamennone e Menelao. La struttura risale al 1.400 a.C. circa e, secondo la tradizione, avrebbe appunto ospitato il tesoro di Atreo e dei suoi figli.
Dai ricchi corredi delle tombe sono pervenute anche alcune maschere funerarie d’oro (*) usanza derivata dalla civiltà egizia. I tratti dei volti raffigurati appaiono fieri e decisi e si riscontra un singolare effetto di austerità, che del resto è tipico di tutto il linguaggio artistico miceneo. Infatti, se nella più remota fase del Miceneo Antico la cultura artistica risulta sensibilmente segnata dai modi cretesi, più fluidi ed eleganti, nella produzione successiva si riscontra uno stile piuttosto rigido e severo, dominato da un’impostazione schematica.
L’arte micenea, particolarmente dedita all’oreficeria, è caratterizzata da una tendenza all’astrazione e dalla predilezione per soggetti affini all’attività militare, quali scene di combattimenti o di caccia.
La produzione di gioielli, armi, sigilli e vasellame, in genere opere di piccole dimensioni, è impostata su una fine lavorazione a sbalzo con motivi decorativi stilizzati, spesso scanditi in un serrato intreccio e segnati da una vigorosa forza espressiva.
Da questo linguaggio artistico così asciutto e austero emerge il carattere severo di un popolo bellicoso, dedito alle armi e alle conquiste.
La potenza micenea raggiunge l’apice tra il XVI e il XIV secolo a.C., ma a questo momento di gloria segue un inarrestabile declino, segnato dal sopraggiungere di altre realtà. Le incursioni dei cosiddetti “Popoli del mare” e l’arrivo della stirpe dorica segnano, infatti, la fine definitiva dell’eroica civiltà achea. Con essa, tramonta anche la fase protostorica: i tempi sono ormai maturi per nuove evoluzioni culturali. La città di Atene, nell’Attica, sopravvivrà alle devastazioni dei Dori ed è da questa potente polis che si svilupperà la straordinaria civiltà greca, erede delle suggestive culture fiorite nell’Egeo e culla della successiva cultura dell’Europa occidentale.
Mariaelena Castellano
PER SAPERNE DI PIÙ …
(*) DALLA STORIA AL MITO: LA GUERRA DI TROIA
I Micenei sono passati alla storia come i combattenti della mitica guerra contro Troia, resa celebre dai versi del poema omerico dell’Iliade.
I valorosi Achei, dopo nove anni di combattimenti e scontri, distruggono e conquistano la potente città frigia che è a capo delle principali rotte commerciali dello Stretto dei Dardanelli. La cronologia del conflitto è controversa, ma tra le varie ipotesi si segnala come probabile la datazione del 1.250 a.C. Secondo il mito, la guerra viene innescata dal rapimento della bella Elena, moglie del re di Sparta, Menelao, figlio del re miceneo Atreo. A rapirla è Paride, figlio di Priamo, re di Troia, città situata nell’attuale Turchia.
Menelao, forte dell’aiuto del fratello Agamennone e di valorosi combattenti, quali Achille, Aiace e Ulisse, brama la sua vendetta contro la città e ne nasce un lungo conflitto, condotto a fasi alterne, finché l’astuto Ulisse, fingendo la ritirata dell’esercito assediante, lascia in dono agli avversari un grande cavallo di legno. Venute meno le esigenze difensive, i Troiani festeggiano la resa, ma il ventre dell’opera lignea ospita un esercito di Achei, pronto a far capitolare il nemico.
La fama e la notorietà del racconto mitologico della guerra di Troia si è perpetuata nei secoli attraverso la trattazione in numerosi scritti e opere d’arte. Nei tempi attuali, inoltre, il mondo del cinema non ha mancato di ispirarsi a questa antica trama alimentata da vicende eroiche e avvincenti.
Risale al 2.004 “Troy”, la versione cinematografica diretta da Wolfgang Petersen, con Brad Pitt nelle vesti di Achille e Orlando Bloom in quelle di Paride.
Le valorose gesta dei Micenei non si esauriscono con la fine di questo sanguinoso conflitto, ma continuano nelle avventurose peregrinazioni di Ulisse, il cui decennale viaggio di ritorno nella natia Itaca dà vita a un altro celebre racconto omerico: l’Odissea.
DENTRO L'OPERA
(*) LA MASCHERA DI AGAMENNONE (oro, XVI sec. a.C. circa, Atene, Museo Archeologico Nazionale)
Tra le maschere funebri micenee, risulta ben nota la Maschera di Agamennone, così denominata dall’archeologo tedesco Schliemann, che ne volle identificare il volto regale e austero con quello del mitico sovrano. Il reperto, portato alla luce nel 1.876, è stato spesso oggetto di polemiche e se ne è addirittura messa in dubbio l’autenticità. Alcuni studiosi, infatti, vi hanno riconosciuto un falso messo in scena dallo stesso Schliemann, ma il pensiero archeologico prevalente non sostiene queste ipotesi.
L’opera, in sottile lamina d’oro lavorata a sbalzo, denota un’alta qualità esecutiva, in accordo con l’abilità tecnica micenea nell’ambito metallurgico. I giochi riflessivi dell’oro creano singolari effetti di luminosità, che simboleggiano la vita, quasi a voler glorificare attraverso la luce il volto dell’eroe a cui è dedicata la maschera. L’oro è prezioso ed eterno: attraverso questo materiale s’intende venerare il defunto e conferirgli splendore nell’eternità.
Le fattezze riprodotte nella Maschera di Agamennone sono essenziali ma incisive, caratterizzate da un tratto netto, garante di una solenne ed equilibrata staticità.