Allo straordinario rinnovamento artistico operato nella Firenze del primo Quattrocento, si affianca la singolare esperienza della pittura fiamminga, maturata nel XV secolo nelle Fiandre, ovvero negli antichi Paesi Bassi.

Anche in questo caso la fioritura artistica trova un riscontro nella notevole prosperità economica del territorio. Inoltre, i frequenti scambi commerciali tra le principali città fiamminghe e Firenze consentono un importante confronto culturale.

Anche la pittura fiamminga, come la fiorentina, propone  una visione naturalistica della realtà ed entrambe si distinguono dalla cultura tardogotica del tempo, che continua a prevalere nelle grandi corte europee .

Tuttavia, pur rivelando notevoli affinità tra loro, i due linguaggi presentano anche importanti differenze.

L’arte rinascimentale italiana, fondata su una prospettiva scientifica, pone l’uomo come protagonista degli spazi rappresentati.

Per i pittori fiamminghi, invece, la figura umana è uno dei molteplici elementi presenti in una visione particolareggiata della realtà, dove ogni dettaglio è analizzato con minuzia, come a sé stante, piuttosto che parte di un insieme.

La prospettiva è resa attraverso la successione di oggetti e architetture, ma senza i rapporti di scala e le dovute proporzioni.

Se nei dipinti fiorentini c’è un unico punto di fuga, in quelli fiamminghi vi sono più punti di fuga e ciò crea un effetto enigmatico, talvolta onirico, a conferma della singolare verve inventiva fiamminga.

Nei dipinti delle Fiandre la protagonista principale è la luce, non  più originata da un’unica fonte, ma da più sorgenti; essa esalta e vivifica ogni elemento raffigurato: è una luce trascendente e unificante. Inoltre, gli effetti luministici sono potenziati dal sapiente utilizzo della pittura a olio, tecnica perfezionata e portata a livelli di gran maestria, consentendo risultati raffinati e sorprendenti effetti di verosimiglianza.

Jan van Eyck, Roger van der Weyden e Hugo van der Goes sono tra i principali protagonisti della pittura fiamminga quattrocentesca. Nei loro dipinti permane uno spirito ancora medievale, legato alla concezione del peccato e alla mancata rivalutazione dell’uomo e delle sue dignità civiche e morali. Questa visione così differente dall’anima rinascimentale italiana  spiega la diffusione della pittura fiamminga nei paesi settentrionali, ancora così legati a una cultura teologica, che nel Cinquecento sfocerà nel movimento religioso della Riforma Protestante.

 Jan van Eyck (1390 ca – 1441) è considerato il fondatore di questo nuovo linguaggio. Egli riporta l’attenzione sulla pittura a olio sperimentandone le alte potenzialità luministiche e cromatiche. È poco interessato alla costruzione d’insieme degli spazi, ma punta a un’accurata resa tridimensionale dei singoli elementi, affiancata da una minuziosa descrizione della realtà, indagata in tutti i suoi aspetti più particolari.

Sono poche e frammentate le notizie sulla vita e sulla formazione di Jan van Eyck. Sappiamo che inizia a dedicarsi alla produzione di raffinate miniature seguendo l’esempio dei fratelli De Limbourg. In questi lavori giovanili mostra già una spiccata propensione al naturalismo e alla ricerca spaziale.

Risale a un periodo compreso tra il 1426 e il 1432 il grandioso Polittico dell’Adorazione dell’Agnello mistico, dipinto in collaborazione con il fratello Hubert. L’opera è composta da dodici scomparti dipinti in entrambi i lati e raffiguranti scene costruite con un’innovativa solidità, dove un disegno nitido modella i personaggi, evidenziati anche da una straordinaria vivezza cromatica e luministica.

Queste conquiste caratterizzano anche il noto Ritratto dei coniugi Arnolfini, realizzato nel 1434, come attesta la firma datata apposta sulla tavola.

I due coniugi, con ogni probabilità identificabili con Giovanni e Giovanna Cenami, sono raffigurati all’interno di una ricca abitazione borghese, rivelatrice dell’agio della coppia. Ogni oggetto è reso con cura meticolosa, in un virtuoso gioco di riproduzione illusionistica, enfatizzato da una studiata luminosità e dalla brillantezza dei colori.

Osservando il dipinto si è così portati a indagarne i singoli dettagli: i sontuosi abiti degli Arnolfini, gli zoccoli di legno che indicano la familiarità domestica, il cagnolino simboleggiante la fedeltà coniugale, il lussuoso lampadario d’ottone, l’imponente letto a baldacchino drappeggiato in rosso. L’occhio si perde nella somma maestria descrittiva di Van Eyck, esaltata dalla presenza di ben quattro punti di fuga, fino a posarsi sullo specchio concavo appeso alla parete, in cui si riflette la parte di stanza non visibile nella tavola, dove si possono scorgere due personaggi in procinto di entrare, a cui Giovanni Arnolfini sembra rivolgere un saluto. Un originale espediente, questo, a conferma della straordinaria verve inventiva del maestro, che si pone come fondamentale punto di riferimento per la pittura fiamminga quattrocentesca.

Il suo linguaggio non manca di influenzare la formazione di Rogier van der Weyden (1399 ca. – 1464), la cui opera rivela un severo controllo delle forme e una solida costruzione plastica.

Nella Deposizione del Museo del Prado, dipinta tra il 1433 e il 1435,  i personaggi si accalcano intorno al corpo del Cristo assumendo pose quasi artefatte, in contrasto con la veridicità della loro consistenza statuaria o con la verosimiglianza descrittiva dei particolari. La drammaticità della scena, rivelatrice della profonda spiritualità di van der Weyden, si coglie nell’espressività solenne dei personaggi. Si noti, in particolare, la figura della Vergine accasciata a sinistra, a riecheggiare la posa del Figlio morto.

In occasione del Giubileo del 1450, Rogier van der Weyden si reca in Italia soggiornando in diverse città, tra cui Firenze, dove i suoi modi lasciano una visibile eco e dove un po’ di anni dopo, nel 1478, farà il suo ingresso una significativa opera fiamminga, commissionata per la Chiesa di Sant’Egidio. Si tratta del Trittico Portinari, dipinto da Hugo van der Goes, che lascerà un segno incisivo nella cultura artistica fiorentina, anche per le sue grandi dimensioni, insolite per i dipinti di area fiamminga. Negli scomparti laterali sono raffigurati i committenti, i coniugi Portinari, in ginocchio, accompagnati dai figli e dai santi patroni; nella tavola centrale, una raffinata Adorazione, vivificata da una luce tersa, si dispiega in uno spazio ampio e profondo, animato dalla Sacra Famiglia circondata da angeli e pastori, questi ultimi resi con un forte realismo descrittivo.  Ogni personaggio mostra una salda volumetria, scolpita da mirabili effetti chiaroscurali.

La sapiente regia di van der Goes consente di coniugare gli aspetti più squisitamente fiamminghi, quali la vivezza cromatica e luministica e la minuzia descrittiva dei particolari, a un imponente senso di monumentalità, che segna un alto livello di maturità di questo originale percorso pittorico.

Mariaelena Castellano

Hieronymus Bosch

Tra le voci più originali della cultura figurativa fiamminga spicca quella di Hieronymus Bosch (1450 ca. – 1516), segnata da un complesso sentimento religioso e da una sagace verve satirica.

Bosch porta alle estreme conseguenze la resa analitica del linguaggio fiammingo, piegandola a un suggestivo simbolismo mistico e a una sorprendente potenza visionaria. L’artista, attivo in un’associazione religiosa locale, la Confraternita della Madonna, nei suoi dipinti racconta la spiritualità ancora tutta medievale delle Fiandre e dei paesi del nord; una spiritualità permeata dal perenne contrasto tra il principio del Bene e quello del Male, dove l’uomo è chiamato a scegliere tra la via della rigorosa obbedienza religiosa e la tentazione di una vita più libera e sensuale, la vita peccaminosa dei piaceri terreni, destinata alla condanna morale e alla punizione esemplare.

Questa visione, condivisa da gran parte della società del tempo, viene alimentata dalla fervida fantasia dell’artista, talvolta sfociante nel grottesco. L’universo pittorico di Bosch è popolato da una moltitudine di esili creature, umane come ibride, pervase da una straordinaria energia vitale, che brulicano in allucinati scenari onirici, dove  trovano dimora incubi inquietanti e folli fantasie.

La singolare verve espressiva di Hieronymus Bosch si manifesta appieno nelle sue diverse versioni del Giudizio Universale, come nelle invenzioni iconografiche del Trittico del Giardino delle delizie, probabile allegoria della lussuria, e del Trittico del carro di fieno, dove negli scomparti laterali trovano posto le scene della Creazione e dell’Inferno.

Si tratta di opere che avranno un largo seguito nell’orientamento pittorico europeo del Cinquecento, esercitando fino ad oggi il loro fascino senza tempo, nutrito anche dall’effetto decorativo dell’insieme e dalla minuziosa resa di una miriade di particolari.