Michelangelo Buonarroti nasce a Caprese, in provincia di Arezzo, nel 1475. La sua formazione artistica avviene a Firenze, dove inizia a lavorare presso la rinomata bottega di Domenico Ghirlandaio. Tuttavia, la maggiore propensione alla scultura lo induce a passare nello studio di Giovanni di Bertoldo, allievo di Donatello. Una volta inserito nella cerchia di questo artista, entra nell’ala protettiva di Lorenzo il Magnifico e ha così modo di frequentare il giardino mediceo di San Marco, punto di ritrovo per artisti e letterati, ornato da una ricca collezione di antichità classiche.

Con i primi talentuosi lavori, quali la Madonna della Scala, la Battaglia dei Centauri e il Bacco, Michelangelo fornisce già un’abile prova delle sue mirabili capacità espressive, delineando sin d’ora le principali tematiche del suo linguaggio: il costante confronto con l’antico, nel tentativo di emularlo e persino superarlo; l’importanza del disegno, che concretizza l’idea; la resa emozionale degli stati d’animo; il naturale effetto di movimento e la vigorosa potenza plastica dei volumi.

Le sue opere paiono animarsi da un anelito vitale, sprigionando l’intensa energia creatrice di un artista inquieto e passionale, segnato da un’impetuosa e virile indole titanica e, al tempo stesso, da un’anima femminile, più incline a una lirica sensibilità. Già quando è in vita si diffonde il mito del divino Michelangelo, l’artista che incarna alla perfezione lo spirito della rinascita dell’antico, adoperandosi in tutte le tre arti di scultura, pittura e architettura, per pervenire a sorprendenti risultati in ognuno di questi ambiti. Tuttavia, egli non cela la spiccata predilezione per il lavoro scultoreo, più affine alla sua concezione artistica, votata a disciplinare la materia informe.

Per Michelangelo la forma è già contenuta nel blocco di pietra e l’artista ha il compito supremo di liberarla ed elevarla allo stato di idea. Pertanto, egli privilegia l’uso del marmo, che lascia ottenere la forma “per via di levare” e non “per via di porre”, come avviene invece con l’impiego del bronzo.

Nel 1496 il giovane artista si reca a Roma, ove farà ritorno più volte, alternando la permanenza nella capitale a lunghi soggiorni fiorentini. La monumentale aura del passato imperiale gli consente di maturare la propria sensibilità verso l’antico, confrontandosi con opere di ampio respiro.

Tra il 1498 e il 1499 realizza il gruppo marmoreo della Pietà per San Pietro in Vaticano, capolavoro definito da una visione armonica e da effetti di sorprendente naturalezza. Il corpo del Cristo è adagiato sull’ampio panneggio della veste di Maria, come fosse un bambino dormiente che trova riparo nella protezione materna. Maria accoglie il Figlio nel suo grembo, monumentale come un trono. Ha il volto velato di malinconia, la sua è una tristezza languida, che avvicina il fedele, invitato a provare lo stesso dolore. La Madre dell’umanità è una fanciulla, raffigurata qui in un’immutabile giovinezza, consona all’ideale di donna casta. In lei si riflette anche l’eterna saldezza della Chiesa, custode secolare del Corpus Domini.

L’ampio panneggio della Vergine, increspato e solcato da profonde ombre, è un espediente di cui si serve l’artista per evidenziare il corpo levigato e perfetto del Cristo: attraverso la contemplazione di queste forme classiche, pure e armoniche, prive di imperfezioni, Michelangelo intende celebrare la bellezza spirituale e assoluta del creato.

Due anni dopo, nel 1501, l’artista rientra a Firenze, dove è presente anche Leonardo e dove, nel 1504, arriverà anche Raffaello. In questo periodo così fecondo per la città toscana, il Buonarroti riceve l’incarico di scolpire un monumentale David, in origine commissionato per adornare uno dei contrafforti della facciata del Duomo.

L’incarico è complesso, in quanto il blocco marmoreo destinato all’opera risulta già manomesso da un precedente lavoro abbozzato decenni prima dallo scultore Agostino di Duccio. Tuttavia, Michelangelo non risente di questo inconveniente tecnico: il suo colossale David incarna alla perfezione l’ideale eroico di un uomo possente e virile, detentore di quelle virtù civiche e morali, poste a fondamento dei valori classici. Il David è qui colto nell’attimo di concentrazione, prima di scagliare la fionda destinata a colpire il gigante Golia. Il giovane pastore, futuro re d’Israele, è dunque rappresentato nel momento che precede l’azione: la sua fronte aggrottata mostra la preoccupazione di chi è in procinto di compiere un gesto forte; il volto è definito da una marcata caratterizzazione, a indicarne la sfera emozionale umana; i muscoli sono in tensione, mentre le mani nervose e scattanti, con le vene visibili in superficie, sono pronte a far roteare la fionda per avviare l’azione.

Come Donatello, anche Michelangelo sceglie di raffigurare David nudo, equiparandolo a un eroe classico, in questo caso una sorta di atleta erculeo, data la maggiore virilità conferitagli rispetto all’esemplare donatelliano. L’opera del Buonarroti rappresenta un elogio della forza fisica governata dalle virtù intellettuali. Le qualità morali incarnate da questo nudo virile vengono riconosciute dai fiorentini come l’espressione di quei principi di libertà e indipendenza, così cari alle proprie istituzioni repubblicane e, pertanto, la statua non viene più destinata alla cattedrale, ma all’ingresso di Palazzo Vecchio, sede del potere cittadino, il luogo ideale ove collocare il modello del valoroso uomo guerriero, aiutato da Dio nel momento della difficoltà.

Benché si tratti di una scultura a tutto tondo, essa è pensata per l’originaria collocazione lungo la facciata della cattedrale e, dunque, in modo da essere osservata dal basso, attraverso una veduta frontale. Per tale motivo, nonostante sia celebrata come prototipo di una bellezza canonica, l’anatomia dell’eroe biblico presenta delle distorsioni, dovute anche a esigenze specifiche dell’artista. Così, i fianchi e il torso sono leggermente ridotti, mentre la testa e i piedi risultano sovradimensionati per essere ben visibili da una maggiore distanza; inoltre, le mani sono eccessivamente ampie per evidenziare la loro funzione di scagliare la fionda. Eppure, la statua non manca di naturalezza  e la trattazione anatomica michelangiolesca, così espressiva e innovativa, recupera l’antico attualizzandolo in chiave inedita.

Sempre a Firenze, intorno al 1504, l’artista dipinge una Sacra famiglia nota come Tondo Doni, dal nome del mercante fiorentino Agnolo Doni, a cui l’opera è destinata, probabilmente in occasione delle sue nozze con Maddalena Strozzi o, secondo studi più recenti, per la nascita della figlia; in questo caso, l’opera si dovrebbe riferire a una datazione più avanzata.

Il Tondo Doni si distingue  per l’intensa brillantezza dei colori, quasi cangianti e per la trattazione vigorosa dei corpi, modellati come fossero sculture; nelle loro pose sinuose e spiraliformi Michelangelo definisce una modalità espressiva a lui cara, quella della “figura serpentinata”, avvitata su se stessa e tesa verso l’alto, in una perenne ricerca di dinamismo.

In primo piano, la scena è interamente occupata da San Giuseppe e dalla Madonna con il Bambino, mentre sullo sfondo s’intravedono giovani nudi, simboli dell’umanità pagana prima della venuta del Messia. A rafforzare quest’interpretazione iconografica, si noti a destra la presenza mediatrice del piccolo San Giovanni Battista, posto a cerniera tra la Sacra Famiglia e l’antichità pagana.

Nel 1505 il Buonarroti fa ritorno a Roma, convocato da papa Giulio II. Il pontefice, intento a celebrare le glorie della città eterna e i fasti del potere papale, concepisce anche la sua sepoltura come un grandioso monumento e affida questo prestigioso incarico a Michelangelo. L’artista, entusiasta, si adopera da subito nella progettazione, recandosi personalmente a Carrara per la scelta del marmo da utilizzare. Tuttavia, a questo iniziale momento di esaltazione fa seguito un lungo susseguirsi di afflizioni e malcontenti, dovuti ai continui rinvii e ridimensionamenti imposti dallo stesso Giulio II. Il progetto originario di Michelangelo è stroncato da subito, poiché il pontefice preferisce dedicarsi maggiormente agli ambiziosi rifacimenti pensati per la Basilica di San Pietro. Segue un secondo progetto risalente al 1513, da cui derivano i due Schiavi, oggi conservati al Louvre, e il possente Mosè, utilizzato per il monumento definitivo. Anche questa seconda ideazione subisce una battuta d’arresto, per poi essere ulteriormente ridimensionata negli anni, fino ad approdare alla realizzazione ultima del 1545.

(Mosè, particolare dalla tomba di Giulio II )

Oggi la tomba si trova murata lungo una delle pareti della chiesa romana di San Pietro in Vincoli. Tale allestimento, strutturato su due registri sovrapposti, rappresenta il modesto risultato di una tormentata vicenda durata decenni, avviata con ostentazione e pomposità, per poi ridursi progressivamente, a seguito dei continui ripensamenti del pontefice.

L’artista non cela la delusione per il gran torto subito, cosicché nel 1508 Giulio II tenta di rabbonirlo offrendogli un altro importante incarico:  la decorazione della Volta della Cappella Sistina. Inizialmente Michelangelo non è propenso ad accettare. E´ ancora fortemente risentito per la vicenda del monumento e avverte la complessità di un’impresa artistica a lui poco congeniale per la sua minore padronanza nella tecnica ad affresco rispetto alle oramai conclamate abilità scultoree.

Tuttavia, persuaso dalle pressanti insistenze papali, si dedica a questo grandioso ciclo decorativo, in cui trasferisce la solenne concezione artistica elaborata per il sepolcro papale. Così dal 1508 al 1512, è chiamato a fronteggiare l’ampia superficie della volta, in completa solitudine, salvo qualche sporadico aiuto di collaboratori. Posizionato su scomode impalcature, per tempi sempre più lunghi, come egli stesso lamenta nei suoi scritti.

Il programma iconografico da raffigurare è articolato e complesso; studiato con ogni probabilità dal teologo e neoplatonico Egidio da Viterbo, affronta il tema della redenzione dell’umanità. Per ovviare alla difficoltà di operare su uno spazio così esteso, Buonarroti lo scandisce in più riquadri, raffigurandovi delle finte membrature architettoniche definite da un mirabile illusionismo prospettico.

La parte centrale, attraversata da arconi dipinti con effetto sporgente, presenta nove riquadri pensati per ospitare le scene della Genesi; dei nove riquadri, cinque sono rimpiccioliti per far posto agli angoli a dieci coppie di ignudi, reggenti altrettanti medaglioni ornati da scene bibliche. Nelle due sezioni laterali, invece, trovano posto dodici cattedre di marmo sulle quali emergono le figure monumentali di sette profeti e cinque sibille. Gli spicchi angolari della volta accolgono quattro episodi biblici riferiti alla promessa della salvezza del popolo eletto (Giuditta e Oloferne, Davide e Golia il Serpente di bronzo, la punizione di Amon). Infine, nelle vele e nelle lunette sottostanti  sono raffigurati gli antenati di Cristo.

Il cammino dell’uomo ha il suo incipit nel ben noto riquadro della Creazione di Adamo, inserito al centro dell’intera composizione. Qui l’anelito vitale sprigionato dalla mano del Dio Padre sfiora appena la mano del primo uomo e l’energia di questo gesto fissa il momento di avvio della vita umana. In tale scena, come nell’intera opera, Michelangelo modella i corpi come fossero sculture: li rende possenti, vigorosi, pulsanti di vita e capaci di occupare uno spazio tridimensionale, definito da una sapiente intelaiatura prospettica.

Questa perfetta fusione tra architettura, scultura e pittura consente all’artista di superare i disagi legati alla sua limitata considerazione nei riguardi della pittura, rea di aggiungere “materia su materia”, anziché liberare la forma “per via di levare”, come nel caso delle sue predilette sculture marmoree. In ogni caso, pur essendo poco incline alla disciplina pittorica, il Buonarroti realizza un eccezionale saggio di bravura, un’opera segnata da un’assoluta coerenza d’insieme, da una monumentalità compositiva di ampio respiro e dagli intensi cromatismi cangianti, questi ultimi preannunciati nel Tondo Doni e qui  riemersi a seguito del paziente lavoro del recente restauro sponsorizzato dalla Nippon Television di Tokio.

Michelangelo narra la storia dell’umanità attraverso la perfezione e la maestosità di raffigurazioni intrise del suo più alto concetto di estetica, anche qui inteso come inno alla bellezza assoluta del divino, come già nella Pietà del Vaticano. Diversamente opererà un ventennio dopo, nel celebre affresco del Giudizio Universale (1536-41), dipinto nella stessa Cappella Sistina, sulla parete retrostante l’altare. Oramai egli non cerca più la bellezza ideale, ma piuttosto il senso di tragicità dell’umano destino. I corpi dipinti appaiono adesso tozzi e appesantiti da un’eccessiva solidità muscolare, tutti sopraffatti dall’imperioso gesto del Cristo-Giudice, imberbe, ma impassibile nella sua austera severità.

Nel giorno del giudizio michelangiolesco non c’è gioia nemmeno nei volti dei salvati; a prevalere sono la paura e lo sgomento dei dannati: l’ira di Cristo non risparmia nessuno, è giunto il momento della resa dei conti e della giustizia divina.

Attraverso queste potente immagini, l’artista svela il suo tormento interiore, il grave smarrimento morale e la sfiducia nella possibilità della salvezza. I tempi sono oramai mutati: la corruzione della Chiesa emerge in tutta la sua gravità, i movimenti riformatori esprimono la volontà di un cambiamento e l’animo sensibile dell’artista, di fronte a questi eventi, si piega all’ossessione del concetto di morte e di peccato, lasciandosi alle spalle i fasti e le bellezze degli anni giovanili. L’idea di morte e la paura del peccato albergano nei corpi titanici del Giudizio, così ammassati, in un incessabile e soffocante moto rotatorio intorno alla figura del Cristo, fino a essere risucchiati come da una vorticosa voragine.

L’accumulo della collera e il senso di terrore percepibili nella scena vengono purificati da un’intensa e vibrante aura energica, vera protagonista dell’opera. Il Giudizio rappresenta la conclusione implacabile della storia dell’umanità, avviata negli affreschi della volta e qui proclamata con grande audacia inventiva. Nel periodo compreso tra gli affreschi della Volta e il Giudizio, Michelangelo è attivo a Firenze nel complesso della Basilica di San Lorenzo, occupandosi della progettazione della facciata dell’edificio e della realizzazione degli spazi attigui della Biblioteca Laurenziana e della Sagrestia Nuova.

In particolare, la Sagrestia Nuova (1520-34), così chiamata per essere distinta da quella progettata un secolo prima dal Brunelleschi, riveste grande importanza nello scenario fiorentino dell’epoca, in quanto destinata a cappella funeraria medicea.

L’ambiente s’inserisce nel transetto della chiesa, in posizione speculare alla brunelleschiana Sagrestia Vecchia, qui rievocata dalla scelta planimetrica quadrata caratterizzata dalla presenza della scarsella dietro l’altare. Tuttavia, il progetto michelangiolesco si distingue per una concezione più dinamica dello spazio: le pareti presentano l’aggiunta di un ulteriore piano finestrato e una vigorosa intelaiatura architettonica, segnata da un’inedita interpretazione del linguaggio classico; si osservino, ad esempio, le edicole marmoree con timpano curvilineo sovrastanti le porte o i potenti aggetti della trama lapidea, enfatizzati dal contrasto con le rientranze delle nicchie. La trattazione plastica dell’opera è esaltata da studiati giochi chiaroscurali, a cui concorrono le finestre timpanate del secondo piano, sormontate da un’ampia cupola cassettonata. Nonostante l’opera resti incompiuta, in essa si delineano con chiarezza le tematiche portanti dell’architettura michelangiolesca, tutt’oggi leggibili nella vocazione tridimensionale delle pareti, la cui partizione è esaltata dalla bicromia del bianco marmoreo e del grigio della pietra serena.

All’esigenza dell’artista di una potente resa espressiva dello spazio concorrono anche le monumentali tombe di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino e di Giuliano de’ Medici duca di Nemours, Le due sepolture sono poste una di fronte all’altra, entrambe sormontate dalla statua del defunto, stagliata in una nicchia. Sui due sarcofagi trovano invece posto le allegorie dell’Aurora e del Crepuscolo per la tomba di Lorenzo e le allegorie del Giorno e della Notte per quella di Giuliano. Se nelle effigi dei duchi medicei prevale una rigorosa compostezza formale, le quattro raffigurazioni allegoriche simboleggiano l’inesorabile scorrere del tempo che induce alla morte e dunque risultano pervase da una vigorosa energia plastica, resa dalle inquiete torsioni dei corpi e da una vibrante tensione muscolare.

Nel 1534 Michelangelo parte alla volta di Roma, lasciando incompiuta la Sagrestia Nuova, che avrebbe dovuto ospitare anche i monumenti funebri di Lorenzo il Magnifico e di suo fratello Giuliano. Nella capitale l’artista, oltre alla commissione del Giudizio della Sistina, può maturare la sua esperienza di architetto dedicandosi, in particolare, al prestigioso incarico della sistemazione di Piazza del Campidoglio, centro nevralgico della città, luogo di collegamento tra la sua parte antica e quella moderna, nonché sede della vita civile romana.

Quando nel 1538 papa Paolo III affida la riqualificazione di questo spazio ricco di memorie storiche al Buonarroti, la piazza versa in condizioni rovinose, priva di una definizione formale e di un assetto morfologico. Inizialmente Michelangelo deve occuparsi del basamento per l’antica statua equestre di Marco Aurelio, trasferita nel Campidoglio per volere del pontefice. A questo primo lavoro fa quindi seguito un lungo e complesso avvicendarsi di interventi, che avrà piena conclusione soltanto nel 1940, con la realizzazione della pavimentazione disegnata dall’artista. Risale al 1546 l’incarico di rimodellare il medievale Palazzo dei Senatori, principale quinta scenografica della piazza, impreziosita dall’aggiunta di una monumentale scalinata a doppia rampa. Dal 1562, anche il Palazzo dei Conservatori, situato lateralmente, in posizione divergente, viene rielaborato dall’artista lasciando scorrere sull’intera facciata imponenti paraste di ordine gigante, qualificate dalla presenza di capitelli “pseudo-ionici”(*).

(*) I capitelli ionici del Palazzo dei Conservatori sono provvisti di quattro facce curvilinee, sormontate da abachi mistilinei. Questa singolare interpretazione dell’ordine ionico, così ravvivato da una potente resa plastica, avrà gran diffusione del Seicento. 

Pur non disponendo di consistenti fondi, Michelangelo reinventa lo spazio del Campidoglio conferendogli un’elegante impostazione armonica, rinvigorita dalla dinamica tensione scultorea del suo originale estro creativo.

L’attuale configurazione geometrica della piazza è frutto di una sapiente regia artistica, che trova la sua piena definizione nella progettazione di un nuovo edificio, speculare al Palazzo dei Conservatori. L’inserimento del cosiddetto Palazzo Nuovo concepisce uno spazio trapezoidale orientato verso la parte moderna della città e non più verso i ruderi del Foro, come a voler comunicare l’esigenza di proiettarsi verso la nuova grandezza della capitale.

Per raccordare la piazza al resto dell’Urbe, Michelangelo progetta una scenografica scalinata, la “Cordonata”, che va allargandosi man mano che giunge verso l’alto, verso il rinnovato scenario del Campidoglio, luogo ricco di antiche memorie storiche, dominato al centro dalla statua equestre di Marco Aurelio(*). L’intero complesso ruota attorno al valoroso imperatore, simbolo del potere e dell’intelligenza romana. Con il suo gesto maestoso e solenne, l’eroico condottiero rappresenta il fulcro della piazza e lo straordinario disegno geometrico della pavimentazione ne enfatizza la centralità.

Dopo la morte di Michelangelo, i successivi interventi non alterano lo spirito originario di un progetto di respiro monumentale, concepito per valorizzare con rigore geometrico ed equilibrio armonico un’area di fondamentale importanza per Roma. 

Se Piazza del Campidoglio rappresenta il cuore civico della capitale, il suo centro spirituale è nella Basilica di San Pietro in Vaticano(*) e nel 1547 Michelangelo riceve anche l’incarico di dirigere i lavori per il rifacimento dell’edificio simbolo della cristianità. Egli recupera l’idea bramantesca della pianta centrale concependo un ampio spazio sottostante alla cupola, progettata secondo una visione altamente dinamica ed espressiva.

Negli ultimi anni della sua vita, Michelangelo riconsidera il tema scultoreo della Pietà, inquadrandolo adesso come contemplazione riflessiva della morte. Se da giovane aveva realizzato corpi giovani, perfetti, simboleggianti una bellezza intesa come mezzo di elevazione spirituale, nella maturità, vecchio e sofferente, medita sul mistero della morte. Pertanto, la produzione plastica di questo periodo presenta un aspetto incompiuto, che si può rapportare al pensiero dell’artista sulla forma intesa come potenzialmente già contenuta nella materia, già prima di essere liberata dall’artista. Tale assunto trae vigore proprio dall’apparente incompiutezza delle sue ultime opere dall’aspetto appena abbozzato, il cosiddetto non finito michelangiolesco, meno definito formalmente e proprio per questo più forte e coinvolgente.

Si osservi la Pietà Rondanini (1564), a cui lavora negli ultimi giorni di vita; un’opera che racchiude in sé tutto il testamento spirituale dell’artista; un’opera umanissima, che parla all’anima di sofferenza e di amore, attraverso il corpo affusolato del Cristo, sorretto amorevolmente dalla Madre, accostata a lui in modo struggente, per stringerlo a sé in un abbraccio mesto e senza fine.

Con la Pietà Rondanini, Michelangelo pone termine all’arte rinascimentale aprendo un varco verso la modernità: qui la realtà percepibile viene meno per far posto a una più autentica espressività interiore.

Schivo e solitario, maestoso e monumentale nella sua perfezione artistica, passionale e tormentato, Michelangelo Buonarroti si erge come un impetuoso Titano nel variegato panorama culturale del Cinquecento, ponendosi al di sopra del proprio tempo, nell’eterno fluire delle sue potenti energie espressive.

M.C.

(Immagine di copertina particolare della Pietà Bandini, autoritratto di Michelangelo nelle vesti di Nicodemo; fonte: https://www.rsi.ch/news/vita-quotidiana/cultura-e-spettacoli/Il-volto-pulito-di-Michelangelo-14748003.html).

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La statua equestre di Marco Aurelio: da Piazza del Campidoglio ai Capitolini

Nel 1979, nel clima di tensione degli anni di piombo, a seguito dello scoppio di una bomba dinanzi al Palazzo Senatorio, si pensò di fornire una collocazione più sicura al monumento equestre di Marco Aurelio. Prima di essere trasportato ai Musei Capitolini, dove si trova tutt’oggi, l’opera è stata oggetto di un accurato restauro, durato ben nove anni.

Al suo posto, in Piazza del Campidoglio, è stata collocata una fedele riproduzione realizzata con la precisione della tecnica laser. 

LA FABBRICA DI SAN PIETRO

L’antica basilica paleocristiana di San Pietro, innalzata nel 349 d.C. per volere di Costantino, primo imperatore cristiano, presentava una pianta a croce latina con cinque navate precedute da un quadriportico.

Sin dal XIII secolo emersero problemi di staticità, cosicché nel 1506 papa Giulio II dispone la demolizione della vetusta struttura, ponendo la prima pietra di un nuovo e maestoso edificio, dove poter collocare una sua monumentale tomba, consentendo così un collegamento diretto con la sepoltura dell’apostolo Pietro, situata da tradizione nel luogo in cui è stata innalzata la basilica.

Il pontefice affida questi prestigiosi progetti rispettivamente a Bramante e Michelangelo.

Del monumento funebre si è già verificato il travagliato iter progettuale, coì come si è detto del primo progetto bramantesco, incentrato sulla pianta centrale a croce greca, poi rivisitato in senso longitudinale.

Alla morte di Bramante, nel 1514, la direzione dei lavori passa a Raffaello, affiancato dal fiorentino Giuliano da Sangallo e, in seguito, dal nipote di costui, Antonio da Sangallo il Giovane.

Il progetto raffaellesco, per compiacere le richieste della curia romana, recupera la pianta longitudinale, caratterizzandola con la disposizione di tre grandi absidi uguali, una centrale e due laterali. Tale proposta è però destinata a restare su carta e dal 1520, dopo la precoce scomparsa dell’artista, i lavori restano sospesi.

In questo frangente, Baldassarre Peruzzi offre un suo contributo progettuale basato sul recupero della pianta centrale di Bramante, con una soluzione a due croci greche, entrambe inseribili in un quadrato.

Tuttavia, nel 1534, papa Paolo III Farnese affida l’opera ad Antonio da Sangallo il Giovane, che riprende invece l’impostazione longitudinale di Raffaello, sigillando la sua versione in un enorme modello ligneo. L’architetto fiorentino inserisce una croce greca nella zona presbiteriale e dispone altre cinque croci, più piccole, nelle parti laterali. Inoltre, rialza il pavimento dell’edificio, creando così degli spazi sotterranei, chiamati “Grotte Vaticane”, in cui sono tutt’oggi custoditi i reperti dell’antica basilica costantiniana e dove trovano posto le tombe di alcuni pontefici, tra cui quella di papa Woityla.

Nel 1546, alla morte del Sangallo, Michelangelo assume la guida della fabbrica, dedicandosi con fervore all’intero complesso, per fissarne così l’assetto in modo definitivo.  

L’ormai anziano maestro prende le distanze dal progetto del suo predecessore, biasimandone l’eccessiva esuberanza ornamentale e la mancanza di chiarezza e unità d’insieme, quest’ultima compromessa anche dalla presenza dell’ampio atrio a ridosso del corpo centrale, che rende poco chiara la conformazione planimetrica dell’edificio, in bilico tra una soluzione centrale e una longitudinale.

Michelangelo punta a una resa più compatta della struttura e recupera l’idea bramantesca della pianta centrale, valorizzandola con l’inserimento di una grande cupola.

Intorno al 1554, l’artista segue la costruzione del tamburo, ritmato dai chiaroscurali giochi scultorei delle colonne binate e delle finestre timpanate. Quindi, tra il 1558 e il 1561, concepisce la maestosa cupola a doppia calotta scandita da contrafforti esterni, con evidente riferimento al Brunelleschi.

I lavori di innalzamento si arrestano alla morte del maestro, nel 1564, e la cupola sarà ultimata soltanto nel 1588 da Giacomo della Porta, che trasformerà il profilo da emisferico a ogivale. A completare l’esterno con la realizzazione della facciata principale, nei primi anni del Seicento, sarà invece Carlo Maderno, in piena continuità con l’impostazione michelangiolesca delle fiancate, scandite da una fitta trama di pilastri di ordine gigante con capitelli corinzi.

Sempre nel Seicento, infine, l’edificio simbolo della cristianità riceverà anche i decori e i monumenti realizzati all’interno da Gian Lorenzo Bernini, unitamente al monumentale colonnato esterno.

Nonostante la molteplicità di interventi precedenti e successivi, la Basilica di San Pietro rivela ancora oggi l’impronta unitaria michelangiolesca, sublimata da quella sua inconfondibile tensione dinamica. La potenza scultorea dei decori, così come il trionfo delle linee curve, concave e convesse, animano l’intera struttura di un vitale anelito di energia creatrice.  

In San Pietro, il Buonarroti aveva mosso i primi passi da scultore, con la giovanile Pietà, ed è qui che nella maturità muove i suoi ultimi passi da architetto, coronando un percorso segnata da un’ineguagliabile, solitaria verve espressiva.