Tra i principali protagonisti della cultura figurativa fiorentina del secondo Quattrocento emerge  Alessandro di Mariano Filipepi, soprannominato Botticelli da un nomignolo attribuito già a uno dei suoi fratelli per la mole robusta.

Sandro nasce a Firenze nel 1445, nel quartiere di Santa Maria Novella, a cui resta legato per tutta la vita e dove, nella chiesa domenicana, ha modo di ammirare sin da giovanissimo l’affresco masaccesco della Trinità. Il potente linguaggio di Masaccio non manca di indirizzare le sue attitudini artistiche ai modi rinascimentali, ma al tempo stesso egli matura un sensibile interesse anche per l’eleganza degli stilemi tardo gotici.

Sandro Botticelli dà voce al suo talento orientandosi inizialmente all’oreficeria, attività particolarmente richiesta all’epoca. Già in questa prima fase rivela un garbato decorativismo formale, che sarà un tratto distintivo del suo stile pittorico. Terminato la formazione come orefice, infatti, l’artista cambia percorso e  si volge alla pittura, attirato probabilmente dai contatti con i numerosi pittori conosciuti nell’ambito della bottega.

All’inizio degli anni Sessanta inizia quindi un nuovo apprendistato presso il pittore Filippo Lippi, stimato per i delicati effetti cromatici e luministici con cui realizza i suoi dipinti, mentre

Nel giro di pochi anni Botticelli si afferma e riceve importanti commissioni. Nel 1481 è chiamato a Roma da papa Sisto IV per affrescare la cappella Sistina insieme ad altri rinomati pittori, mentre nella sua operosa bottega fiorentina realizza un gran numero di dipinti: che si tratti di scene religiose, iconografie mitologiche o di ritratti, essi rivelano raffinate rivisitazioni dottrinali, intrise di contenuti filosofici, religiosi e politici. Pertanto, l’opera del Botticelli si pone come fondamentale testimonianza delle dinamiche culturali fiorentine del tempo, con particolare riferimento al ruolo dei Medici nella rinascita della città. Se, infatti, negli affreschi della cappella di Sisto IV  il programma iconografico legittima l’autorità papale, in una tavola come l’Adorazione dei Magi, dipinta qualche anno prima per Gaspare del Lama, emerge un chiaro intento di ossequio alla dinastia medicea.

Gaspare del Lama è un commerciante di origini modeste che, divenuto agente di cambio, riesce ad accumulare grandi ricchezze. Per consolidare il prestigio raggiunto, dona una cappella alla Chiesa di Santa Maria Novella e affida la realizzazione della pala d’altare al Botticelli. La scelta del tema è legata al suo nome di battesimo, Gaspare, che è anche il nome di uno dei tre Magi. Inoltre, tale iconografia ben si presta all’encomio dei Medici, che amano identificarsi nei saggi re d’Oriente, come attestano i numerosi dipinti di soggetto analogo in loro possesso.

L’Adorazione per la cappella del Lama diventa dunque l’occasione per ritrarre Cosimo il Vecchio e altri esponenti della potente famiglia fiorentina, omaggiata sia dall’artista, sia dal committente, desideroso di un maggior riconoscimento sociale.

La scena, pur essendo affollata, si distingue per un’impostazione solenne ed equilibrata, dove i personaggi sono caratterizzati da una ricca varietà di pose e atteggiamenti, in una sapiente unità iconografica. Tra di essi, in primo piano a destra, figura anche lo stesso Botticelli, che volge lo sguardo verso lo spettatore, come da consuetudine negli autoritratti rinascimentali.

Quest’opera consacra il pittore nello scenario fiorentino del tempo e rappresenta il punto più alto nella fase giovanile della sua carriera.

Pochi anni dopo, tra il 1482 e il 1483, in un momento di piena maturità artistica, Botticelli realizza la Madonna del Magnificat, una delle sue Madonne più famose, replicata più volte, a dimostrazione del gran successo riscontrato.

Il dipinto prende il nome dal cantico del Magnificat che la Vergine è intenta a scrivere, guidata dalla mano del Bambino, mentre due angeli la incoronano.

La scena s’inserisce in un formato circolare assecondato dall’eleganza di una linea sinuosa. Anche la studiata disposizione dei personaggi si adatta alla cornice, come si evince in particolare dall’atteggiamento curvo di Maria. Tuttavia, l’angelo reggicorona di sinistra sembra inserito in uno spazio piuttosto esiguo, al limite del quadro, nascosto dal gruppo dei tre angeli in primo piano, resi con superba raffinatezza.

Per quest’opera è stata impiegata una gran quantità di oro: riflessi aurei risplendono tra aureole,  corona,  chiome e vesti, donando alla scena un singolare effetto di sontuosità, a cui concorre anche la brillantezza cromatica delle stoffe.

La parte superiore del quadro è delineata da una finta cornice architettonica, che simula il bordo di una finestra: questa invenzione consente di aprire sullo sfondo un paesaggio ameno, che conferisce profondità all’immagine.

In questi anni Botticelli oltre a dedicarsi a temi religiosi esegue una serie di opere mitologiche, per le quali verrà particolarmente valorizzato a partire dal XIX secolo, ricevendo la gran notorietà riconosciutagli tutt’oggi.

Si tratta di raffinate allegorie alimentate da colte e spesso enigmatiche citazioni, dove le antiche divinità e le loro corti di esseri mitici rivivono per simboleggiare nuovi valori morali e religiosi.

L’artista interpreta alla perfezione i fondamenti della cultura filosofica neoplatonica, in gran voga presso gli umanisti fiorentini e i Medici. Ne è portavoce Marsilio Ficino, che propone una rilettura in chiave cristiana dell’opera di Platone, esaltandone la concezione di un mondo ideale superiore alla realtà terrena.

I miti botticelliani si pongono dunque come favole spirituali animate da aggraziate creature fluttuanti in uno spazio leggiadro, dove un naturalismo idealizzato e rarefatto prevale sull’interesse per i costrutti prospettici e chiaroscurali. Le figure, definite da una linea elegante e sinuosa, s’inseriscono in uno studiato ritmo compositivo e appaiono quasi incorporee, come a suggellarne l’evanescenza materiale a favore di una visione più trascendente.

Da ciò si comprende la rinuncia a una resa più credibile della rappresentazione, qui subordinata all’intento di fornire una guida al cammino dell’umanità verso Dio.

La celebre Primavera, realizzata per Lorenzo di Pierfrancesco de Medici, rappresenta uno dei dipinti più emblematici del Rinascimento fiorentino, la cui interpretazione desta ancora oggi pareri discordi. La tavola è infatti indirizzata a una cerchia di pubblico ristretta e capace di intendere la complessità dei riferimenti letterari, filosofici e iconografici sottesi alla raffinata scena bucolica raffigurata.

Al centro della composizione, in un verdeggiante e fiorito giardino delle Esperidi, si staglia l’elegante figura di Venere, attorniata dal suo seguito. L’immagine sembra riproporre alcuni versi delle Stanze del Poliziano, a sua volta ispirate da un passo de L’Asino d’oro di Apuleio. Nel brano in questione, infatti, lo scrittore latino mette in scena una rappresentazione del Giudizio di Paride in cui compare il corteo di personaggi proposti anche dal Botticelli.

La lettura del dipinto procede da destra, nel verso contrario alla scrittura, inquadrando il gruppo di Zefiro, Clori e Flora. Il dio del vento primaverile, guidato dai suoi istinti passionali, afferra la bella ninfa Clori, dalla cui bocca escono fiori; la fanciulla riappare quindi nelle vesti di Flora a simboleggiare la nuova stagione. Segue Venere, dea dell’amore casto, sormontata da Cupido intento a scoccare una delle sue frecce verso il gruppo danzante delle tre Grazie; una di esse si volta verso Mercurio, identificato dai calzari alati e dal caduceo con cui scaccia le nubi, poiché nulla deve disturbare l’eterna primavera del giardino sacro a Venere.

I personaggi si succedono in un sinuoso andamento ritmico tra le verdi fronde del boschetto fiorito, in cui il pittore descrive con minuziosa precisione centinaia di specie botaniche.

Tra le svariate interpretazioni del significato di quest’opera emerge il riferimento ai diversi aspetti dell’Amore: osservando la scena, dalla passionalità carnale di Zefiro si passa al sentimento casto di Venere e alla spiritualità eterea delle Grazie, con un chiaro rimando alle teorie neoplatoniche dell’amore puro, inteso come elevazione dell’anima verso Dio.

Tali considerazioni lasciano intuire un intento pedagogico  indirizzato al destinatario del dipinto, Lorenzo di Pierfrancesco, cugino del Magnifico e prossimo alle nozze. La Primavera andrebbe dunque intesa come un invito rivolto al cammino matrimoniale del giovane, per far sì che egli segua l’amore ideale simboleggiato da Venere, oltrepassando così lo stadio dell’amore fisico e sensuale.

Ad avallare questa lettura si può prendere in considerazione l’originaria ubicazione della tavola, nella camera da letto del palazzo fiorentino di Lorenzo di Pierfrancesco. Nella stessa stanza trovava posto anche un altro quadro del Botticelli, Pallade che doma il centauro, collocato alla sinistra della Primavera, dove lo sguardo contemplativo di Mercurio, volto al di fuori del dipinto, verso sinistra, andrebbe dunque relazionato all’immagine della dea della Sapienza provvista di alabarda e intenta a domare un centauro.

Anche in questo caso la scena simboleggia il dominio della purezza divina sulle voluttà passionali: l’amore evocato nella Primavera troverebbe così la sua più alta sublimazione nell’amore di Pallade, un amore votato alla suprema conoscenza, oltre la quale vi è solo la sapienza suprema di Dio.

Il tema dell’amore torna nella famosa Nascita di Venere, realizzata verso la metà degli anni Ottanta.

A dispetto del titolo, la scena raffigurata riguarda l’approdo della dea nell’isola di Citara, dopo la sua nascita.

Venere solca un mare increspato da piccole onde, sospinta dal mite vento primaverile di Zefiro e Aura; ad accoglierla la ninfa Ora, che le porge un manto rosa adorno di fiori. La dea, adagiata su una conchiglia, si manifesta come un’eterea visione in tutta la sua regale bellezza: la lunga chioma bionda mossa dalla brezza le accarezza un corpo dall’incarnato tenue e dalle fattezze volutamente “imperfette”. Venere appare fragile e delicata e a questa visione contribuiscono le libertà che si concede l’artista: le spalle spioventi, il collo lungo, il braccio sinistro dall’inverosimile conformazione. Nel fluido linearismo di questa figura si può cogliere l’essenza della poetica di Sandro, votato a una lirica spirituale e al piacere di una linea sinuosa ed elegante.

E´ la linea a concretizzare la forma, e nel pensiero neoplatonico è la forma a rivelare l’idea. Nella Nascita di Venere i contorni sono ben evidenziati, come a sugellare l’idea di perfezione e di purezza insita nella divinità raffigurata. Anche in quest’opera la dea assume una sacralità cristiana, come si può evincere dalla trattazione iconografica che sembra ispirata alla narrazione solenne del battesimo del Cristo, riecheggiato dal braccio sollevato della ninfa e dai personaggi astanti a destra.

Con i suoi dipinti mitologici Botticelli si fa interprete della raffinata filosofia neoplatonica e degli interessi culturali dei Medici, in una crescente aspirazione ai valori ideali di bellezza e di armonia, un’aspirazione destinata però a soccombere ben presto.

Nella Firenze di fine Quattrocento la morte di Lorenzo il Magnifico, nel 1492, determina una crisi politica culminante nell’esilio della famiglia Medici e in questo scenario dominato dalle incertezze e dalle tensioni s’inserisce la figura carismatica di frate domenicano Girolamo Savonarola, un fervido predicatore capace di scuotere il popolo con le sue veementi prediche apocalittiche. Egli condanna senza riserva ogni espressione di evasione culturale, compresi libri e dipinti di vocazione profana, in nome di un ritorno a più sobri costumi e a più consoni valori di cristianità.

Il linguaggio di Sandro Botticelli non può non riflettere questo brusco mutamento dei tempi. L’artista fa così ritorno ai soggetti sacri, resi adesso in formule più arcaicizzanti, permeate da gerarchie dimensionali e da eccessive esasperazioni espressive, ben distanti dalla raffinatezza descrittiva degli anni precedenti.

Mariaelena Castellano