Gli anni Ottanta del Novecento ci introducono allo scenario della nostra contemporaneità. 

E‵ in questo decennio, infatti, che il venir meno della Guerra Fredda, dopo il crollo dei regimi comunisti e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, segna il trionfo del modello capitalistico occidentale

La fine della contrapposizione dei due blocchi continentali non mette però a freno le tensioni internazionali, fomentate negli anni Novanta da nuovi conflitti in Medio Oriente e dalla cruenta guerra dei Balcani. Altri focolai di instabilità emergono inoltre dalle numerose organizzazioni terroristiche, come il movimento islamista di Al Qaeda, responsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 al Word Trade Center di New York e al Pentagono. Con l’avvento del nuovo millennio, altre guerre continuano a devastare interi paesi, generando esodi di profughi e problematiche relative a una già complessa gestione delle massicce migrazioni nei paesi più  sviluppati.    

Gli anni Ottanta segnano l’avvio alla contemporaneità anche attraverso il passaggio all’era digitale. In questi anni, infatti, nasce internet e il progresso tecnologico incalza, incidendo su diversi ambiti: dal cinema, che si apre agli effetti speciali, al settore terziario, che vive una fase di progressiva espansione, sostenuta dalla rapida evoluzione informatica. 

Inoltre, le innovazioni tecnologiche consentono anche una rapida unificazione dei mercati a livello mondiale, con la conseguente omologazione nella scelta dei beni di consumo e delle strategie di marketing. Dagli anni Novanta, per far riferimento a queste dinamiche, si è coniato il termine di “globalizzazione”, un fenomeno sempre più complesso, responsabile di un’eccessiva uniformità dei gusti, ma anche di effetti negativi per l’equilibrio ambientale del nostro pianeta. 

Del resto, negli ultimi decenni, l’impatto delle attività umane sull’ambiente si è posto in modo sempre più incisivo, generando situazioni sempre più problematiche in merito ai cambiamenti climatici, allo smaltimento dei rifiuti, alla qualità dell’aria e dell’acqua, alla conservazione della biodiversità.  

L’arte di oggi, sempre attenta alle esigenze di innovazione e originalità,  interagisce con questi scenari complessi ponendosi in costante dialogo con la realtà contemporanea

Inoltre, per assecondare le dinamiche della globalizzazione, le opere si trasformano sempre più in beni d’investimento, così come architetture avveniristiche e sculture monumentali diventano un motivo di attrazione turistica, capaci dunque di generare nuovi introiti.

Gli effetti delle strategie di marketing sull’arte tendono a far coincidere il valore di un’opera con il prezzo che le viene attribuito; un prezzo destinato a lievitare dinanzi a ciò che rappresenta il nuovo o, comunque, lo straordinario. Per soddisfare le nuove esigenze di mercato, gli artisti contemporanei devono dunque puntare a sorprendere, rischiando di diventare  delle pedine di un sistema complesso. Chi riesce a emergere, ottenendo un ruolo da star, si ritrova a limitare fortemente la sua libertà di azione e di pensiero, mentre chi non si piega al sistema, in genere è destinato a restare fuori dai margini del mercato artistico.

A partire dagli anni Ottanta, alcuni generi artistici quali il Graffitismo, la Videoarte, l’Installazione, la Fotografia e l’Arte Pubblica, acquistano un ruolo sempre più rilevante, fino a caratterizzare fortemente lo scenario internazionale contemporaneo.

Graffitismo, Street Art e Murales

Il Graffitismo nasce negli anni Settanta negli Stati Uniti come forma di protesta giovanile, avviata nelle aree più degradate di New York. I “writers”, solitamente ragazzi di minoranze etniche e sociali, sfidano la polizia e la legalità a colpi di bombolette spray, inondando le mura dei palazzi e i vagoni dei treni di immagini colorate, spesso allusive alle complesse tematiche della droga, dell’emarginazione sociale e della violenza, non senza intento provocatorio. 

Questi giovani artisti elaborano un linguaggio innovativo, fondato sull’utilizzo del “lettering”, ovvero di una scrittura decorativa, e appongono su ogni loro creazione  la propria firma graficamente elaborata, una sorta di marchio di fabbrica, un segno di identificazione che mira a intendere come opera d’arte a pieno titolo l’immagine realizzata.

Si tratta di lavori dal forte impatto visivo, alimentati da colori accesi e da forme dinamiche, con l’intento di  scuotere i passanti per imporsi negli spazi della città, cosicché chiunque possa fruirne senza doversi recare appositamente in un museo. 

Negli anni Ottanta, accanto al Graffitismo prende avvio la Street Art, una forma d’arte che si avvale di più attrezzi operativi, proponendo immagini fondate su una maggiore componente figurativa ed estetica.  

I disegni, forti di un’abile padronanza della tecnica, risultano contaminati dai più disparati stili: dai linguaggi primitivi alla Pop Art, dai fumetti all’Action Painting. 

Quando gli street artist operano a mano libera, senza l’ausilio di stencil e mezzi digitali, possono adattare l’immagine a qualsiasi formato, creando dei veri e propri capolavori. In questo caso si parla di murales, un fenomeno presente già negli anni Venti con i muralisti messicani, tra cui spicca il noto Diego Rivera, compagno della pittrice Frida Kahlo.  Sin da allora, il murales è concepito come un’arte accessibile a tutti e questa tendenza emerge fortemente anche con la Street Art. Essa, rispetto ai caratteri del “lettering”, poco comprensibili ai più, propone immagini più comunicative e facilmente fruibili, per cui viene accolta di buon grado. 

Tra i writers statunitensi emerge il nome di Jean Michel Basquiat (1960-1988), entrato nella leggenda dell’artista maledetto, ucciso dalla sua stessa frenesia creatrice, dall’impeto delle sue visioni artistiche, dall’inquietudine che lo porta a condurre una vita ribelle e senza regole, segnata dall’uso di droghe e alcool. 

Nato a New York da padre haitiano e madre portoricana, Basquiat conosce una rapida ascesa artistica, riuscendo a imprimere nella sua opera una spontaneità istintiva quasi infantile, seppur inserita in una meditata trama armonica, dove parole e immagini si fondono in un perfetto equilibrio. Le parole, in particolare, rivestono un’importanza fondamentale, espressa dalle scritte lapidarie, dai frammenti verbali o ancora dalla curiosità intrigante di frasi cancellate. Nel suo immaginario pervengono oggetti, pensieri e simboli d’ogni sorta, confluendo in immagini quasi visionarie, di sapore onirico. 

Nel tratto di Basquiat, inoltre, si può cogliere un’urgenza comunicativa di natura espressionista, abilmente mescolata ad altre fonti d’ispirazione, che spaziano dal passato al presente, dal primitivismo alla Pop Art.     

La predilezione per il linguaggio pop, avvicina il giovane writer all’eccentrica personalità di Andy Warhol: tra i due nasce un’amicizia e un sodalizio professionale e quando, nel 1987, Warhol muore per un intervento chirurgico mal riuscito, Basquiat resta profondamente turbato. Dipinge scheletri stilizzati e si lascia andare all’uso delle sostanze stupefacenti, fino a quando muore anch’egli per un’overdose, nel 1988, ad appena ventisette anni.  

Anche il percorso di Keith Haring  è segnato da un destino tragico, che pone bruscamente fine alla sua rapida fortuna artistica.

Appassionato di arte e di disegno sin dall’infanzia, nel suo percorso formativo si lascia ispirare dalla Pop Art, da Picasso e dall’Action Painting, per poi pervenire a un suo inconfondibile linguaggio personale, caratterizzato da energiche forme stilizzate, definite da uno spesso contorno nero o bianco ed enfatizzate da una serie di linee circostanti, come delle vibrazioni, simili ai segni fumettistici. Le sue opere rimandano ai disegni dei bambini, sono semplici e genuine, eppure dense di un’impetuosa energia. Omini e cani stilizzati, tra i suoi soggetti più ricorrenti, esprimono gioia di vivere e vitalità e talvolta diventano un mezzo per denunciare soprusi e ingiustizie sociali. Le opere di Haring, infatti, pur nella loro semplice spontaneità, sono pervase da un significato profondo e dalla forte esigenza di celebrare la vita. 

Haring inventa un linguaggio altamente comunicativo, che fa presa sui giovani e non solo, ma al tempo stesso la sua arte è socialmente impegnata e tramite essa lo street artist tratta anche tematiche importanti come la droga, la violenza, il razzismo e la lotta all’AIDS. Proprio questa malattia, contratta nel 1985, interrompe la sua breve ma intensa carriera artistica: l’artista si spegne nel 1990, a soli 31 anni, lasciando in eredità un’arte di immediata comprensione, capace di trasmettere un’alta carica vitale.

L’ultima sua opera, risalente al 1989, è il murales “Tuttomondo”, dipinto sulla facciata del Convento di S.Antonio a Pisa, un appassionato inno alla vita in tutte le sue forme e colori.

Approdando allo scenario contemporaneo della Street Art emerge il nome, o meglio il nickname di Banksy, celebre e misterioso artista inglese, attivo dagli anni Novanta. La sua identità resta tutt’oggi incognita: pare sia nato a Bristol nel 1974, ma c’è anche chi ipotizza si tratti di un gruppo di più artisti accomunati da uno stesso percorso ideologico e stilistico. 

Le opere di Banksy vengono spesso replicate in diversi luoghi, poiché risultano in genere realizzate tramite la più rapida tecnica dello stencil. Esse propongono una raffinata critica politica e culturale, pervasa da una sottile vena satirica, con cui l’artista condanna la società capitalistica occidentale, le atrocità della guerra, l’inquinamento, il consumismo e il maltrattamento degli animali. I soggetti più ricorrenti sono poliziotti, topi, ma anche scimmie, gatti e bambini, raffigurati in scene insolite, atte a scuotere l’opinione pubblica e a far riflettere. Le immagini, definite da scelte naturalistiche, sono rese con un linguaggio che per certi versi ricorda il mondo fumettistico e, al tempo stesso, si lascia pervadere da un fine lirismo.

Banksy si rende anche protagonista di azioni di “guerrilla art”: realizza opere in luoghi pubblici senza lasciare tracce del suo passaggio. Anche se spesso si tratta di lavori strettamente connessi ai luoghi in cui vengono realizzati, essi esprimono comunque dei messaggi universali, in modo così semplice e diretto, ma sempre originale, riscuotendo un gran successo nell’immaginario popolare. 

Tra le sue opere più famose, si ricorda “Flower thrower”: un ragazzo nelle vesti di rivoltoso, intento a lanciare con gran foga un mazzo di fiori colorati, creando dunque un effetto di sorpresa in chi guarda. L’immagine sembra riecheggiare lo slogan di protesta contro la Guerra del Vietnam: “Mettete fiori nei vostri cannoni”, con il chiaro intento di esprimere un messaggio di pace. 

Anche “Girl with balloon” è un’opera che ha riscosso gran notorietà, realizzata una prima volta a Londra nel 2002 e poi replicata più volte in altri luoghi o come quadro incorniciato. Nel 2018 una copia venduta all’asta si è autodistrutta grazie a un ingranaggio nascosto dall’artista nel telaio. In questo modo, il processo creativo si è verificato per la prima volta durante un’asta.

“Girl with balloon” raffigura una bambina in bianco e nero a cui sfugge un palloncino rosso a forma di cuore. L’immagine riscuote da subito successo per la sua alta carica poetica, insolita per il genere street art e, per questo, più fascinosa. Secondo i più, l’opera cela un significato di speranza, sotteso anche dal titolo inserito dall’autore nella prima versione: “There is always hope”. Altri sostengono invece che il gesto di lasciar andare il palloncino possa rimandare a un’idea di ribellione o, ancora, alla perdita d’innocenza che giunge con il passaggio dall’età infantile a quella adolescenziale. 

L’immagine si apre, dunque, a un ventaglio di interpretazioni. Del resto, l’intento di Banksy è proprio quello di proporre spunti riflessivi che ognuno può elaborare come meglio crede. 

La Videoarte

Per Videoarte s’intende la produzione di video intesi come opere artistiche. Ne derivano interessanti e originali proiezioni giocate sugli effetti digitali e sulle svariate sperimentazioni legate ai contenuti proposti. Tali produzioni non vanno dunque confuse con i video effettuati per documentare momenti artistici come le performances e le installazioni della Land Art. In questo caso si tratta infatti di riprese finalizzate alla conservazione nella memoria e non di opere vere e proprie. 

La Videoarte si impone in concomitanza dell’innovazione tecnologica digitale e s’impone da subito per la sua carica eccentrica e, spesso, provocatoria. Gli artisti diventano registi fantasiosi di filmati in cui la coordinazione di immagini, forme, colori ed effetti sonori conducono il pubblico verso nuovi orizzonti, tutti da esplorare. 

Un primo importante contributo in questo ambito artistico risale già agli anni Sessanta, con il coreano Nam June Paik (1932-2006), considerato uno dei fondatori della Videoarte, nonché il primo artista a proporre il televisore come un oggetto artistico. Sin dai suoi esordi nella corrente artistica Fluxus, egli fonde la tipologia della performance con lo scorrimento di immagini trasmesse nei monitor, rivelando da subito la sua poliedrica indole creativa. Le sue opere si aprono con disinvoltura ai più svariati ambiti culturali e all’utilizzazione di una molteplicità di mezzi tecnici ed espressivi, che non mancano di coinvolgere il pubblico. 

“Lo schermo video è la tela del nuovo pittore”, sostiene l’artista e con questo suo pensiero apre la strada alle successive sperimentazioni della Videoarte, che negli anni si evolve per approdare ai nuovi mezzi e supporti messi in campo dall’inarrestabile avanzata della digitalizzazione. 

A partire dagli anni Ottanta, in particolare, si effettua il passaggio dalla visione tramite monitor alla proiezione simultanea di più video su  un’ampia parete. Ciò consente non solo la possibilità di visionare scene differenti in contemporanea, secondo studiati scorrimenti legati al messaggio dell’opera, ma implica anche un maggior coinvolgimento del pubblico, fruitore di una visione più dinamica, che lo avvolge completamente. 

Negli ultimi anni, invece, l’alta definizione dei grandi schermi al plasma o a cristalli liquidi riporta l’interesse dei videoartisti al monitor. 

Tra i primi artisti a usufruire delle proiezioni multiple, lo statunitense  Bill Viola (1951) si distingue per gli interessanti spunti riflessivi e per l’abilità nell’ambito tecnico-esecutivo. Il suo percorso trae origine da un’intensa conoscenza dell’arte del passato, per approdare alla trattazione di importanti tematiche, in un perenne dialogo con la modernità. 

Si pensi al suo celebre “Nantes Triptych” (Trittico di Nantes) realizzato nel 1992, con chiaro riferimento alla tipologia pittorica medievale del trittico, mentre i soggetti proposti nell’opera, attraverso tre video proiettati simultaneamente, alludono al tema iconografico delle tre età della vita.

Nello schermo di sinistra, infatti, scorrono le immagini della nascita di un neonato, mentre nel terzo schermo, a destra, si assiste all’agonia di una donna in punto di spirare. Tra questi due estremi, tra il vagito di chi viene al mondo e l’agonia di chi sta per esalare l’ultimo respiro, si pone il video di un uomo che fluttua sotto un getto d’acqua, immerso in una luminosità azzurra. Si compie così il ciclo esistenziale umano, che scorre dalla vita alla morte, in un susseguirsi di suoni, sequenze di sospiri, lamenti, sussurri. 

La Videoarte subentra anche nella tipologia artistica del ritratto, rivisitato in chiave innovativa, con l’ausilio dei nuovi mezzi tecnologici, alla ricerca di un’inedita modalità espressiva. E’ quanto emerge nel noto video “Zidane: un ritratto del XXI secolo”, realizzato nel 2006 dallo scozzese Douglas Gordon (1966) e il francese di origine algerina Philippe Parreno (1964).

L’opera nasce da una serie di riprese del famoso calciatore Zinedine Zidane, a cui per la durata di un’intera partita vengono destinate ben 16 telecamere che ne seguono ogni spostamento da svariate angolazioni. Ne deriva il montaggio di un video di 90 minuti, proprio come la durata di una partita, che si pone come un odierno e innovativo ritratto di uno dei volti più noti del panorama calcistico internazionale. L’opera viene anche presentata al Festival del Cinema di Cannes, uscendo così dai consueti canali divulgativi artistici per approdare a un circuito espositivo specificamente cinematografico.

La Videoarte negli ultimi anni ha ricevuto una gran risonanza, favorita in particolare dal lockdown e dalla chiusura di musei e teatri, a seguito delle misure di sicurezza per arginare la diffusione della pandemia del 2020.  

Oggi questa forma d’arte in perenne crescita vanta l’utilizzo di nuovi mezzi tecnici e spazia tra i più differenti ambiti, approdando anche alle realtà virtuali di videogames e smartphone.

Le installazioni 

Le installazioni artistiche fanno una prima comparsa già nella prima metà del Novecento (si pensi ai ready-made di Duchamp), per poi trovare una maggiore diffusione negli anni Sessanta e Settanta, ma è in particolare a partire dagli anni Ottanta che questa tipologia acquista ancora più importanza, fino a diventare una delle forme d’arte più diffuse nel panorama contemporaneo. 

Per installazione s’intende un allestimento artistico in cui possono confluire dipinti, sculture e oggetti d’ogni sorta, dalle dimensioni più svariate. Una sintesi di tecniche e materiali finalizzata a suscitare riflessioni ed emozioni inedite, in una perenne sperimentazione che chiama in causa la società, la storia, la politica e la cultura del proprio tempo, talvolta avvalorata da citazioni riferibili alle antiche tradizioni artistiche oppure proiettata alla più avveniristica modernità di oggi. 

Un requisito fondamentale delle installazioni è la fruizione attiva del pubblico: lo spettatore, trovandosi al cospetto di una forma d’arte più coinvolgente, si sente maggiormente chiamato in causa. Il primo approccio, in genere, è quello della mera osservazione, a cui fa seguito una serie di riflessioni indotte dalla tipologia di allestimento. In ogni persona possono maturare sensazioni e pensieri diversi e lo scopo è proprio questo: l’opera viene consegnata con la consapevolezza che susciterà risposte diverse a seconda del vissuto e dei condizionamenti culturali del fruitore. 

Le installazioni possono avere carattere permanente o temporaneo, possono essere progettate appositamente per un luogo oppure possono essere pensate come itineranti, con studiati adattamenti a contesti diversi.

Murales a 3D, elementi architettonici modificati, proiezioni luminose: le più varie forme di installazione mirano a provocare stupore in chi le ammira, ponendosi da subito come un linguaggio artistico di gran popolarità, spesso finalizzato a stimolare la trattazione di importanti tematiche, come l’ambiente, il razzismo, la guerra. 

Tra i numerosissimi esempi di note installazioni degli ultimi decenni, segnalo “For Forest- The Unending Attraction of Nature” (2019), installazione green dell’artista Klauss Littmann, dove all’interno di uno stadio australiano sono stati piantati trecento alberi autoctoni. L’opera suggerisce una profonda riflessione sui rischi ambientali del nostro pianeta, lasciando intuire che un giorno le foreste potrebbero essere ammirate soltanto come elementi in mostra. 

La fotografia contemporanea 

La fotografia nasce nel XIX secolo e con il passare degli anni assume un ruolo sempre più importante nell’ambito artistico, come può attestare l’opera del dadaista e surrealista Man Ray.  

Scegliere un soggetto, metterlo a fuoco valutandone l’angolazione e il taglio compositivo è una vera e propria operazione artistica. Ma è soltanto dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso che la fotografia assume una valenza autonoma dalle altre discipline artistiche, imponendosi per le sue intense immagini che  indagano sulla realtà nelle sue molteplici sfaccettature.  

Negli ultimi decenni, inoltre, la tecnica fotografica si avvale dei nuovi mezzi tecnologici, che le consentono una produzione ancora più creativa e innovativa, con lavori impeccabili, supportati da una qualità ad alta definizione. 

Fotografi di moda come di paesaggi, di ritratti o di reportage di guerra propongono oggi immagini capaci di evocare sensazioni inducendo a nuove riflessioni. La capacità di cogliere istanti significativi o originali scorci paesaggistici rende una fotografia un’opera d’arte a tutti gli effetti.

Nell’attuale panorama artistico, infatti, le fotografie sono entrate a pieno titolo nei circuiti espositivi, incontrando anche il mercato delle aste, sfiorando spesso prezzi da capogiro. 

Tra i fotografi più creativi e sensibili va ricordato lo statunitense Steve McCurry (1950), autore del celebre ritratto “Ragazza afgana” (1985), in cui l’intenso primo piano di una profuga afgana ne rivela tutta l’inquietudine e il senso di smarrimento, denunciando così lo stato di tensione e paura a cui sono costrette le popolazioni in guerra. 

    

Il canadese Edward Burtynsky (1955), altro noto nome della fotografia contemporanea, si interessa invece dei problemi ambientali, che nei suoi scatti richiamano l’attenzione e la riflessione del grande pubblico.

Si pensi a “Catasta di pneumatici a Oxford” (1999), dove un gigantesco cumulo di pneumatici inquinanti si rende portavoce delle gravi problematiche ambientali che affliggono il nostro pianeta da ormai molti decenni.

Anche l’italiano Paolo Pellegrin (1964) si occupa di emergenza ambientale e di altre problematiche che dilaniano il mondo. In primis, i conflitti armati di cui ci fornisce immagini intense, capaci di aprire un varco emozionale con l’osservatore.

Nel suo celebre scatto “Peshmerga. Curdi piangono la morte di un compagno ucciso da un cecchino dell’ISIS” (2016), lo strazio vissuto dai soldati impone una forte riflessione sui soprusi, il dolore e le profonde ingiustizie che ogni guerra porta con sé.

M.Castellano