I decenni degli anni Sessanta e degli anni Settanta si aprono sulla scia di un crescente entusiasmo per il progresso scientifico, suggellato nel 1969 dal primo sbarco dell’uomo sul suolo lunare. 

La scena politica internazionale continua a essere dominata dalle tensioni legate alla Guerra Fredda: nel 1976 si conclude il devastante conflitto del Vietnam, mentre nella maggior parte dei paesi filosovietici i regimi comunisti si avviano allo sfascio. 

In questo periodo, segnato dalla modernizzazione e caratterizzato dalle conquiste civili e sociali avviate con le contestazioni studentesche del ‘68,  gli artisti esprimono la loro adesione ai fermenti innovativi del tempo agendo su più fronti, con modalità differenti, ma sempre protese al nuovo. Essi sperimentano inediti linguaggi, dove la crescente  importanza attribuita alle idee e ai pensieri prevale sulla realizzazione pratica dell’opera, per proiettarsi così alla scoperta di originali valori espressivi. 

Tra le principali correnti artistiche caratterizzanti gli anni Sessanta e Settanta vanno ricordate, in particolare, l’Optical Art, l’Arte Cinetica, la Minimal Art, l’Arte Concettuale, l’Arte Povera, la Land Art, l’iperrealismo e la Body Art. Inoltre, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, va segnalata la Transavanguardia, un movimento italiano con forti sviluppi internazionali, che ci introduce alla modernità degli anni Ottanta.   

L’OPTICAL  ART E L’ARTE CINETICA

Per Optical Art (abbreviata anche in “Op Art”) s’intende quella corrente artistica incentrata sulla percezione visiva e sugli studi scientifici relativi all’ottica. Le nuove tecnologie offrono il substrato di questo nuovo linguaggio teso a coinvolgere lo spettatore attraverso immagini ingannevoli, fondate su effetti illusionistici di tridimensionalità o movimento, ottenuti da uno studiato accostamento di linee e colori. 

La principale personalità della Op Art si riconosce  nell’ungherese Victor Vasarely, stabilitosi a Parigi già negli anni Trenta. Le sue opere creano un dialogo con l’osservatore, a cui propongono le suggestioni di una visione instabile, aperta a svariate possibilità interpretative. 

Negli stessi anni si sviluppa l’Arte Cinetica, anch’essa incentrata su una connessione attiva tra artista e fruitore, privilegiando lo studio e la resa del movimento per realizzare opere in continua trasformazione, con particolare riferimento agli ingranaggi meccanici. Celebri, ad esempio, le opere dello statunitense Alexander Calder (1898-1976).

Nonostante i confini siano piuttosto labili, rispetto alla Optical Art, le opere cinetiche non sono soltanto virtualmente dinamiche, ma creano un vero e proprio movimento, che induce gli osservatori a riflettere sulle differenti possibilità di fruizione.

L’Arte Cinetica nasce negli anni Cinquanta e, dopo un declino iniziato alla fine degli anni Settanta,  riprende vigore nel nuovo millennio, attingendo dai continui progressi tecnologici. 

LA MINIMAL ART 

La Minimal Art (o Minimalismo, in italiano) si distingue per la scelta di austerità formale e di rigore geometrico. 

Gli artisti minimal, tra cui si segnalano Donald Judd (1928-1994), Frank Stella (1936) e Sol Le Witt (1928-2007), utilizzano materiali ricavati da processi industriali e li propongono in forme semplici, spesso ripetute in serie e contestualizzate con cura nel loro spazio espositivo.

Ne deriva un’opera asettica, che non intende suscitare emozioni, puntando semplicemente a rivelarsi per quel che è, nella sua fredda e rigorosa essenzialità, con il chiaro intento di prendere le distanze dalla impetuosa violenza espressiva dell’Action Painting. 

L’ARTE CONCETTUALE 

Intorno alla metà degli anni Sessanta, alcuni artisti sia europei che statunitensi, seppur attraverso modalità differenti ed eterogenee, propongono una ricerca sempre più slegata dall’artisticità e propensa, invece, al valore dell’idea, o meglio, del concetto. Queste esperienze prendono appunto il nome di “Arte Concettuale” e sono accomunate anche dalla volontà di contrastare il divampante fenomeno del consumismo, in aperta polemica con le dinamiche della Pop Art. Venendo meno l’estetica artistica, infatti, si nega la valenza consumistica dell’opera, prediligendo piuttosto l’idea mentale che la sottende. 

Se il primo teorico dell’Arte Concettuale, dopo gli esordi minimalisti, è Sol Le Witt, un ruolo di primo piano spetta all’americano Joseph Kosuth (1945), autore di un’emblematica installazione intitolata “Una e tre sedie”.

Si tratta dell’esposizione di una sedia vera e propria, affiancata da una sua foto a grandezza naturale e da una stampa con la riproduzione grafica del suo significato, tratto da un dizionario. Tre modi diversi per definire l’oggetto-sedia, nessuno dei quali attinente all’arte, volutamente estromessa da questo processo creativo. Il concetto espresso nella sua essenzialità prevale, dunque, sul valore estetico dell’arte.   

L’ARTE POVERA 

L’Arte Povera si avvale di un chiaro intento teorico e prende avvio con una data ufficiale, nel settembre del 1967, in occasione di una mostra organizzata a Genova. 

Anche in questo caso, come già nell’Arte Concettuale, ci si oppone alle tendenze consumistiche del tempo, ovvero a un’arte “ricca”, in linea con le contestazioni sociali del tempo, che vedono protagoniste anche le disagiate classi operaie. Gli artisti utilizzano infatti materiali di recupero, come a voler richiamare i concetti di umiltà e ristrettezza economica, in antitesi al crescente progresso industriale. 

L’interesse torna agli oggetti, stavolta realizzati manualmente, attingendo dai più disparati materiali: legno, paglia, carta, stoffa, frammenti minerali e vegetali. 

Celebri le installazioni di case-igloo di Mario Merz (1925-2003), strutture emisferiche ricavate da un tubolare metallico e ricoperte da materiali di volta in volta differenti. Esse alludono a delle abitazioni primitive e simboleggiano il desiderio di recuperare i valori semplici di una civiltà povera, svincolata dalle logiche capitaliste della società odierna. 

Michelangelo Pistoletto (1929) propone invece la nota “Venere degli stracci”, una riproduzione scultorea dell’antica “Venere di Milo” attorniata da un enorme accumulo di abiti logori e consunti. Un modo, questo, per indurre a riflettere sulla contrapposizione tra il bello artistico e gli scarti della società. L’opera riscuote da subito un gran successo, tanto da essere replicata più volte dopo la sua prima versione risalente al 1967.   

LA LAND ART 

A partire dalla metà degli anni Sessanta si diffonde un nuovo approccio all’arte, che supera i confini delle cornici e delle sale museali, per approdare ai più vasti spazi della natura. Nasce così la Land Art (“arte del paesaggio”), dove il vasto territorio in cui agisce l’artista diviene esso stesso opera. Un modo, questo, per contrastare anche il processo di mercificazione dell’arte, seppur  esso continui a essere alimentato da immagini filmiche e fotografiche delle opere land. 

La Land Art asseconda, inoltre, il desiderio di interagire con dimensioni più ampie in un’ottica di costante mutevolezza, evidenziata dal carattere transitorio dell’opera, soggetta com’è alle modifiche incessanti della natura.  

Celebre l’installazione “Spiral Jetty” realizzata da Robert Smithson nel 1970: una vasta spirale di pietre, cristalli di sale e terra, che giganteggia con i suoi 450 m  nel Great Salt Lake dello Utah, negli Usa, richiamando così la leggenda del grande vortice d’acqua che avrebbe dato origine al lago. 

L’IPERREALISMO 

Nella seconda metà degli anni Sessanta si diffonde in America una corrente artistica definita “fotorealismo” in riferimento all’utilizzo della fotografia nel processo creativo. Nel decennio successivo questo fenomeno raggiunge una portata internazionale e assume la denominazione di “Iperrealismo”, a indicare la restituzione sorprendentemente oggettiva della realtà. 

Attraverso riproduzioni mimetiche di quanto ci circonda, gli artisti propongono  una riflessione sul rapporto tra arte e realtà, causando sorpresa nell’osservatore, spesso spiazzato dalla collocazione causale dell’opera nel percorso espositivo, tanto da doversi chiedere se si tratta di verità o finzione. 

L’opera iperrealista tende ad essere “più reale del reale”, depurata da ogni contenuto emotivo e concettuale, spersonalizzata, eppure proprio mediante questa meticolosa propensione descrittiva, l’artista induce anche a considerare  il vissuto legato al personaggio raffigurato: il senso di solitudine, la rassegnazione, la stanchezza, lo smarrimento… 

Si osservi “Housewife” di Duane Hanson (1925-1996). Come le altre opere iperrealiste, viene realizzata tramite un calco fatto direttamente sul corpo del soggetto e colato in resine sintetiche e fibre di vetro. Quindi viene dipinta con colori acrilici e corredata da oggetti reali, quali abiti, accessori, capelli, risultando così più vera del vero.     

LA BODY ART 

Intorno al 1970 prende vita la corrente artistica della Body Art, incentrata sul corpo e sulle svariate modalità di metterlo in scena suscitando reazioni intense nel pubblico. 

Manipolare sangue di animali, infliggersi tagli, fingersi una statua sono alcuni degli scenari messi in atto dai body artists. 

Risale al 1973 la performance di Gina Pane (1939-1990), intitolata “Azione sentimentale”. L’artista mette alla prova la sua resistenza al dolore e conficca nel suo braccio sinistro delle spine di rose rosse, disposte a distanze regolari. Quindi sostituisce le rosse rosse con delle rose bianche, per poi incidersi il palmo della mano con un rasoio. Gina Pane rievoca così il martirio del Cristo: le rose rosse alludono alla passione, mentre quelle bianche alla purezza della Madre di Dio. 

Un ruolo di primo piano nell’ambito body-artistico e, in generale, nello scenario internazionale dell’arte contemporanea, è occupato da Marina Abramović, (1946), jugoslava naturalizzata statunitense. Le sue performances portano alla luce intense esperienze sensoriali, che non mancano di coinvolgere il pubblico, chiamato spesso in causa anche come parte agente. L’interesse dell’artista per la società e per i comportamenti umani si esplica proprio attraverso lo studio delle differenti reazioni suscitate nei fruitori durante una sua performance. 

Il nome di Marina Abramović è indissolubilmente legato a quello del tedesco Ulay, con cui condivide per oltre vent’anni un proficuo sodalizio artistico, legandosi a lui anche in una lunga e profonda relazione sentimentale. La loro esperienza reale entra così nella sfera della loro artisticità, come attesta anche l’epilogo di un rapporto destinato comunque a finire: per sancire questa separazione, i due artisti, nel 1988, danno luogo alla loro ultima performance insieme, “The Lovers”. Essi percorrono la Muraglia Cinese, uno da un estremo e una dall’altro, per incontrarsi a metà strada, dopo aver percorso ben 2.500 Km, e dirsi quindi addio. 

Marina e Ulay si ritroveranno diversi anni dopo in un’altra emozionante performance, nel 2010. Siamo a New York, dove l’artista jugoslava mette in scena “The artist is present”, restando seduta tutti i giorni, per tre mesi, dinanzi a un tavolo e una sedia vuota, dove può accomodarsi chiunque. Ogni persona può così provare a interagire con l’artista, la quale resta ferma e impassibile, senza svelare alcuna reazione. Questo finché dinanzi a lei non si accomoda lui, Ulay. In pochi secondi riemerge tutta l’intensità della loro storia, gli sguardi e i sorrisi scambiati tra i due toccano le corde emotive dei presenti e il video di questa memorabile performance diventa subito virale. 

Altre correnti artistiche che, al pari della Body Art, ricorrono all’azione come atto creativo sono Happening e Fluxus. La prima considera l’opera come un evento esteso nel tempo che include in sé spazi e oggetti. Tale evento si delinea attraverso la fondamentale partecipazione del pubblico ed è caratterizzato dalla casualità, senza dar spazio ad alcun intento di programmazione. Fluxus, invece, parte dal presupposto che l’arte deve essere fruibile da tutti e, laddove possibile, deve essere anche prodotta. Così l’artista si esibisce usufruendo anche di suoni, poesie, danza, recitazione, in una “fluidificazione” dei generi, evocatrice delle serate futuriste e dadaiste. 

LA TRANSAVANGUARDIA

Il termine “Transavanguardia” viene coniato dal critico Achille Bonito Oliva con riferimento a un gruppo di artisti italiani che a partire dagli anni Settanta propongono un ritorno alla pittura e alla figurazione, in opposizione agli eccessi delle sperimentazioni artistiche del tempo. Dopo le esperienze delle performances, dei ready made e dell’uso della parola in virtù dell’arte, si predilige il recupero della manualità e di una più tradizionale narrazione pittorica. 

Ciò non significa aprirsi a una rappresentazione fedele della realtà, piuttosto l’opera transavanguardista mira a esprimere una forte soggettività, connotata anche da elementi inconsci e  da un uso fortemente espressivo delle forme, alimentate da accese densità cromatiche. 

Il costante riferimento a stili e tecniche del passato, antico come recente, spiega il prefisso trans, che indica appunto un continuo attraversamento da un’opera all’altra, da un riferimento stilistico all’altro, ma in modo sempre libero e autonomo. 

Questo attingere dal passato, in un originale osmosi con le trame innovative del presente, attraverso originali mescolanze, porta ad altre definizioni relative a tali esperienze, quali “Citazionismo” o “ripetizione differente”. 

Il gruppo di pittori transavanguardisti trova un suo incipit ufficiale nella mostra “Aperto 80”, nell’ambito della Biennale di Venezia del 1980. Tra essi ricordiamo la personalità del beneventano Mimmo Paladino (1948), che trae ispirazione dalla cultura della sua terra, pervenendo a uno stile particolare, dove le raffigurazioni di sapore tribale e primitivo, arricchite da colori intensi e luminosi, evocano mistero e significati simbolici. 

M. Castellano

(Immagine di copertina: “Five words in green neon” di J.Kosuth)

L’INDUSTRIAL DESIGN E LA NASCITA DEL “MADE IN ITALY”

Gli anni ‘60 e ‘70 fanno da scenario anche al boom dell’industrial design in Italia, favorito dalla presenza di grandi personalità artistiche desiderose di rimettersi in gioco dopo gli anni dell’immediato dopoguerra.

Si parla di disegno industriale sin dalla seconda metà dell’ottocento, in concomitanza con lo sviluppo dell’industria moderna. Già con l’esperienza dell’Art Nouveau prima e del Bauhaus poi, questo settore artistico  si pone all’attenzione internazionale, per imporsi così nello scenario occidentale: gli oggetti industriali non si limitano dunque ai concetti di utilità e funzionalità, ma si aprono all’estetica e alle qualità formali.  

Con gli anni del boom economico, il progresso industriale si accompagna all’allargamento dei mercati e alla conseguente diffusione del benessere. Sempre più famiglie possono permettersi l’automobile, gli elettrodomestici, la televisione. Si tratta, infatti, di beni prodotti in grandi quantità a prezzi sempre più contenuti, proprio per incentivare l’acquisto. 

Quando tra gli anni ‘50 e ‘60 anche il nostro paese vive una fase di crescita industriale, nasce il “Made in Italy”, espressione che non indica soltanto la provenienza italiana di un prodotto: il “Made in Italy” è sinonimo di qualità, di bellezza, di eleganza, in poche parole di eccellenza.

 

Prodotti come la Vespa Piaggio o la macchina da scrivere portatile “Valentine” di Olivetti attestano la gran fioritura del mercato industriale italiano, legato al design di automobili, elettrodomestici, arredi e al nascente settore dell’illuminotecnica.   

Fondamentale in questo scenario l’intesa tra imprenditori e industrial designers, questi ultimi aperti anche alle dinamiche tecnologiche e alla funzionalità del prodotto, in un crescendo di sperimentazioni e indagini inedite, particolarmente evidenti dopo gli anni Settanta. In questo decennio, infatti, a seguito della prima crisi petrolifera del 1973 e della conseguente recessione delle industrie, anche il design entra in crisi. Gli artisti avviano quindi una fase diversa, in cui riflettere sul proprio ruolo per aprirsi a un approccio più artistico, maggiormente veicolato dalle emozioni e dedito anche al recupero delle tradizioni e di materiali più semplici, come il legno e il vetro. 

Un percorso, questo, che proietta l’industrial design a un ruolo di crescente importanza nell’ambito artistico, come emerge anche oggi, nell’attuale panorama contemporaneo internazionale.