Nel XVI secolo, i linguaggi artistici al di fuori dei confini italiani assumono caratteristiche differenti a seconda delle diversificazioni territoriali. In alcune aree si verificano maggiori contatti con l’arte italiana, in altre, invece, prevalgono ancora le tendenze tardo gotiche e fiamminghe, più legate alle tradizioni locali. Dalla fusione di questi orientamenti nascono soluzioni spesso originali  e dotate di gran qualità espressiva, come si può evincere dalle opere dei principali artisti d’Oltralpe.

Albrecht Dürer (1471-1528)

Un ruolo di primo piano nel panorama europeo cinquecentesco spetta senz’altro ad Albrecht Dürer, pittore e incisore tedesco che ha modo di conoscere l’arte italiana attraverso due soggiorni in Penisola. Il primo è compreso tra il1494 e il 1495,  l’altro tra il 1505 e il 1507. Se da queste esperienze il suo linguaggio riceve fondamentali stimoli innovatori, è altresì vero che egli lascia un segno altrettanto profondo negli artisti italiani del tempo.

Dürer si distingue per una straordinaria abilità disegnativa, ravvisabile in particolare nella sua vasta produzione di incisioni, caratterizzate da una mirabile precisione calligrafica, nonché da una rigorosa attenzione al vero naturale. La predilezione per l’arte dell’incisione si spiega con la formazione orafa di famiglia, grazie alla quale l’artista acquisisce grande dimestichezza nell’utilizzare strumenti specifici utili anche per xilografie e calchi su rame.

Questi lavori, di più immediata circolazione commerciale, gli consentono di divulgare a larga scala il suo linguaggio, ottenendo un gran consenso. Nel 1507 entra nelle grazie di Massimiliano d’Asburgo; alla sua morte, si reca nei Paesi Bassi, nella corte del figlio Carlo V, per ottenere il riconoscimento dei privilegi ottenuti dall’imperatore defunto. Nelle Fiandre ha dunque modo di apprezzare la grande arte fiamminga, che offre nuova linfa alla sua operosità, già così predisposta a un’accurata osservazione dei dettagli.

La fedeltà al dato reale si può cogliere soprattutto nei numerosi soggetti ispirati alla vita delle piante e degli animali, dove l’interesse scientifico dell’artista  si rivela attraverso una precisione ottica degna di un biologo.

Che si tratti dei peli irti e ben definiti di un grazioso leprotto o delle precise giunture di ala nel piumaggio variopinto di un uccello o, ancora, della veritiera consistenza  dei delicati petali di un iris, Dürer rivela la straordinaria abilità di coniugare una resa analitica e minuziosa a un elegante lirismo espressivo. Anche l’indagine sulle forme umane non si ferma al rigore anatomico di muscoli e articolazioni, ma va oltre, cogliendo la più profonda l’interiorità degli effigiati, in una toccante rivelazione dei moti dell’animo umano.

Si osservino, ad esempio, i due ritratti raffiguranti i genitori dell’artista. Il padre, il suo primo maestro d’arte e di vita, Albrecht Dürer il Vecchio, era un orafo di origini umili, trasferitosi a Norimberga con una famiglia numerosa da sfamare. Il suo volto rivela stanchezza e preoccupazione ma, al contempo, è pervaso da una dignitosa, eloquente compostezza.

Il ritratto della madre, invece, è realizzato poco prima che lei morisse e la potente immagine ne evoca la fiera rassegnazione alle rinunce e agli stenti patiti in vita. Gli occhi sgranati, le labbra contrite in una smorfia, gli zigomi sporgenti e il collo solcato dalle rughe manifestano all’osservatore l’intensa forza d’animo di questo volto così espressivo.

Dürer, inoltre, mostra un grande interesse verso l’autoritratto, fornendoci un gran numero di sue immagini. In ognuna egli soddisfa il desiderio di conoscere se stesso e di lasciare una traccia del proprio vissuto, ripercorrendone così le fasi più significative.

Nell’Autoritratto con paesaggio del 1498, l’artista ha ventisette anni e si raffigura in abiti eleganti, di foggia veneziana, in ricordo del recente viaggio in Italia, quando ha modo di soggiornare nella Serenissima e in altre città italiane, confrontandosi così con gli alti esiti del linguaggio rinascimentale del tempo, ma anche con la crescente affermazione del ruolo sociale e della dignità degli artisti. L’immagine fiera che Dürer offre di sé rivela, dunque, l’acquisita consapevolezza dell’importanza intellettuale del suo status di artista.

Due anni dopo, invece, nell’Autoritratto con pelliccia, l’artista si raffigura in modo più ieratico, evocando l’iconografia di un Cristo e riflettendo così le tensioni e le paure spirituali vissute in quegli anni, come a voler incarnare egli stesso le sofferenze patite dal Salvatore.

Due autoritratti, questi, così vicini nel tempo, eppure ben differenti nel significato, entrambi forgiati da un elegante gusto teatrale.

Tra i dipinti a soggetto sacro, merita poi menzione la tavola con La festa del Rosario, realizzata durante il secondo soggiorno in Italia e difatti permeata da uno studiato costrutto spaziale di sapore rinascimentale. L’accurata conoscenza della prospettiva italiana si evince in particolare nell’impostazione piramidale e nella solenne monumentalità che permea la scena.

Si noti, inoltre, l’ardito scorcio della figura angelica ai piedi della Vergine o, ancora, la sapiente sovrapposizione di piani. Permane, al contempo, il forte riferimento alla pittura fiamminga, come attesta la meticolosa restituzione del dato naturale, la vivacità cromatica e l’effetto movimentato dell’insieme.

Si osservi, infine, la presenza, tra gli astanti del pittore stesso. Egli si raffigura sullo sfondo, a sinistra, mentre regge un cartiglio attestante la paternità dell’opera, come a voler suggellare l’importanza del messaggio contenuto del dipinto. Un messaggio che non si ferma al significato religioso del culto del Rosario, ma abbraccia anche le ideologie politiche del tempo, glorificando papato e impero, come si evince dalla presenza dell’imperatore Federico III, padre di Massimiliano I, in rappresentanza del potere temporale, a cui si affianca quello spirituale, offerto dalla raffigurazione del papa Sisto IV, ideatore della festa del Rosario. Inoltre, sullo sfondo si riconosce l’ambientazione nordica della scena, che fa pensare a un ulteriore riferimento alla Germania, in virtù della sua importanza politica, economica e commerciale.

La ricercata eleganza e la complessità simbolica e stilistica di questo dipinto ne fanno un fondamentale riferimento per gli artisti italiani del Cinquecento, fortemente segnati dalla virtuosistica abilità tecnica del pittore di Norimberga.

Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553)

Tra i protagonisti del Rinascimento nordico spicca anche Lucas Cranach il Vecchio, pittore e incisore attivo in Germania come artista di corte. Il suo linguaggio nasce da una commistione tra la cura dei dettagli tipica dei modi fiamminghi e il gusto manierista, quest’ultimo particolarmente evidente nelle forme allungate e nella ricercatezza delle immagini. A queste componenti, inoltre, si aggiunge una spiccata propensione al colorismo veneto, come si può evincere nella tavola del Cristo e la donna adultera (1532), dove le cromie accese e vibranti di luce esaltano le pose e le espressioni dei personaggi.

L’opera racconta l’episodio evangelico di una donna accusata di adulterio e condotta dinanzi a Gesù. “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”: con queste parole, scritte in lettere dorate nella parte alta del dipinto, il Cristo esorta gli accusatori a esser più indulgenti nei confronti degli altri, avendo a mente che nessuno è senza peccato.

La scena, priva di ambientazione, è animata da un gruppo affollato di figure ben definite nelle fisionomie e nella descrizione dei particolari. Si notino le vivide espressività dei volti, talvolta così marcate, da risultare grottesche; si osservi, poi, la cura meticolosa nella definizione di ogni dettaglio, dalle ciocche dei capelli, ai decori degli abiti. Al centro prevale l’immagine benevola di Gesù, voltato con gran naturalezza verso uno dei farisei, che con sguardo corrucciato impugna una pietra. A destra, invece, in primo piano emerge la figura dimessa dell’adultera, il cui sguardo rivolto verso il basso ne rivela tutta la mortificazione patita. L’artista mostra una gran sensibilità nella trattazione di questa tematica sacra che tanto si addice al nuovo credo protestante. La salvezza ottenuta attraverso la fede, infatti, è uno dei capisaldi della dottrina religiosa introdotta da Martin Lutero(*) negli anni Venti del Cinquecento. 

Lucas Cranach il Vecchio condivide e sostiene le posizioni del monaco agostiniano, di cui realizza numerosi ritratti. Inoltre, collabora alla sua traduzione della Bibbia in lingua tedesca curandone le illustrazioni che, insieme a un nutrito numero di suoi dipinti a soggetto sacro, danno origine a una vera e propria iconografia protestante.

Hans Holbein il Giovane (1497-1543)

Restando in Germania, emerge anche l’attività del pittore Hans Holbein il Giovane, orientato ai modi rinascimentali italiani e, al contempo, alla tradizione fiamminga. Il suo percorso, inizialmente, è riferito soprattutto all’arte sacra, mentre con il progressivo  diffondersi della Riforma protestante, si riduce la richiesta di soggetti sacri, cosicché Holbein si dedica maggiormente alla ritrattistica. Nel 1523 ritrae l’umanista tedesco Erasmo da Rotterdam, di cui propone un’espressione pensierosa di gran impatto emotivo, rivelando un’intensa introspezione psicologica.

L’erudito umanista, raffigurato a tre quarti, accanto a un suntuoso pilastro corinzio, indossa una folta pelliccia e poggia le mani su un libro; a destra, sullo sfondo, dietro una tenda verde, s’intravede una mensola con libri e ampolle: particolari, questi, che rivelano la propensione tutta fiamminga ai più minuti dettagli descrittivi. Nel 1532 Holbein si trasferisce in Inghilterra e dopo qualche anno diventa pittore di corte di re Enrico VIII, a cui dedica molti ritratti.

Tra i più noti, quello realizzato nel 1540, in occasione del quarto matrimonio del sovrano, effigiato con aspetto fiero, in posa frontale, a rivelare tutta la sua dignitosa autorità, evidenziata anche dalla ricchezza fastosa dell’abito. Anche in quest’opera emerge la straordinaria abilità tecnica dell’artista, una delle personalità più originali del Cinquecento europeo, promotore di un linguaggio denso di colte allusioni e simbologie.

Pieter Bruegel il Vecchio (1527-1569)

Nel panorama artistico delle Fiandre, nel XVI secolo spicca l’attività di Pieter Bruegel il Vecchio, così chiamato per distinguerlo dal figlio, anch’egli pittore. Il linguaggio di Pieter è intriso di naturalismo fiammingo, ma la minuziosa attenzione ai particolari si accompagna anche all’interesse per il popolo e per gli aspetti della vita quotidiana. Egli dipinge allegorie, scene sacre e paesaggi, prediligendo ariose visioni a volo d’uccello, derivategli con ogni probabilità dall’esperienza del suo soggiorno in Italia, avvenuto nel 1552.

In dipinti come La lotta tra Carnevale e Quaresima (1559), la fervida capacità inventiva, l’affollamento dei personaggi e la sorprendente quantità di dettagli pongono Pieter Bruegel il Vecchio come erede diretto di Hieronymus Bosch, se pur nelle sue opere manchi la spiccata componente visionaria del maestro quattrocentesco. L’occhio attento di Pieter indaga la realtà circostante alla ricerca della sua essenza più intima e sacra, fino a coglierne e svelarne l’aspetto più comune, legato alla presenza dell’uomo e della società.

E′  quanto emerge nel dipinto La torre di Babele (1563), dove al centro di in un’ampia veduta prospettica, segnata da cromie chiare e luminose, la torre babilonese si erge imponente nella sua conformazione a spirale, ornata da una ritmica sequenza di arcate, a richiamo delle antiche vestigia romane. Tuttavia, a ben vedere, la monumentale costruzione risulta incompleta, alludendo all’episodio biblico della Genesi in cui si narra la volontà degli uomini di innalzare una torre alta al punto da sfidare il cielo. Il Dio padre, adirato per quest’atto di superbia, interrompe la costruzione della torre e fa sì che gli umani non parlino più uno stesso idioma, in modo da non poter più comunicare tra loro. Il messaggio dell’artista è chiaro: nonostante tutte le ambizioni e gli sforzi, prima o poi l’uomo deve misurarsi con le proprie capacità, accettandone i limiti.

El Greco (1541-1614)

L’intenso linguaggio pittorico di Domínikos Theotokópoulos, meglio conosciuto come El Greco, si pone tra le più significative manifestazioni artistiche del Rinascimento spagnolo. La sua singolare esperienza si colloca nell’ambito di quell’arco temporale definito il “Siglo de oro”, ovvero un periodo di gran fervore culturale vissuto dalla penisola iberica nei secoli XVI e XVII.

Domínikos nasce a Creta, dove si forma come pittore di icone. Dal 1567, il suo apprendistato continua a Venezia, dapprima al seguito di Tiziano, quindi ispirandosi al linguaggio manieristico del Tintoretto, di cui apprezza gli accesi effetti cromatici e luministici.

Prima di trasferirsi in Spagna, dove riceve il soprannome di El Greco per le sue origini elleniche, trascorre qualche anno a Roma. Nella città eterna ha modo di ammirare l’opera di Michelangelo alla Sistina, restandone profondamente colpito, come si evince dalla sua successiva produzione. Tra i dipinti realizzati durante il soggiorno romano, segnalo il “Ritratto di G.Clovio” e le “Stimmate di San Francesco”, entrambi conservati a Napoli, nel Museo Nazionale di Capodimonte.

Come già il Buonarroti, segnato da un temperamento forte e poco incline alle convenzioni, Domínikos Theotokópoulos affronta le difficoltà di un’epoca contraddistinta dai rigidi dettami della Controriforma. Lasciata l’Italia, spera di trovare un clima più sereno nella corte madrilena di Filippo II, ma il sovrano non mostra di apprezzare particolarmente il suo operato, sul quale l’Inquisizione spagnola vigila in posizione polemica. Pertanto, nel 1577 El Greco si stabilisce definitivamente a Toledo, città a lui più congeniale, in quanto maggiormente appartata rispetto ai condizionamenti di gusto dell’ambiente di corte, ma al contempo ricca di stimoli culturali. Qui l’artista incontra favori e apprezzamenti ed è in questa fase della sua carriera che produce con gran fervore le sue opere più mature e significative, tra cui il Seppellimento del conte di Orgaz, realizzato tra il 1586 e il 1588 per la chiesa di Santo Tomé.

Il dipinto narra la vicenda trecentesca legata alla morte di Gonzalo Ruiz, conte di Orgaz, distintosi in vita per le numerose opere di bene e dunque assistito nelle esequie, secondo la leggenda, dai Santi Agostino e Stefano, accorsi a prestargli degna sepoltura. L’opera, mirabile esempio della potente verve espressiva del pittore cretese, si distingue per l’originalità iconografica e per i suggestivi effetti luministici. La scena è distinta in due parti: quella in basso, terrena, narra l’episodio della sepoltura; quella in alto, celeste, descrive il ricongiungimento dell’anima del conte nel Regno dei cieli. L’evidente messaggio di rinascita è dunque implicito e riveste l’intera narrazione di un profondo significato spirituale.

Attraverso un linguaggio intenso, giocato su contrasti cromatici e vibrazioni luministiche, El Greco raffigura l’episodio con toni drammatici e pervasi da una crescente tensione. Lo stile è dinamico, contraddistinto da figure allungate e sinuose e segnato da un’accurata attenzione ai dettagli, che in brani come la veste trasparente del diacono rasentano il virtuosismo tecnico.

In questi anni, la produzione dell’artista è legata in prevalenza alle iconografie religiose, ma anche alla ritrattistica, caratterizzata da una notevole carica d’intensità espressiva. Inoltre, El Greco si dedica alle vedute paesaggistiche riuscendo a conferire la dovuta autonomia a questo genere pittorico. Si osservi, ad esempio, la Veduta di Toledo dipinta tra 1599 e il 1600: lo scenario è inquietante, dominato com’è da un cielo plumbeo attraversato da fulminei bagliori. Luminose iridescenze lampeggiano nell’oscurità per poi riflettersi tra le spigolose architetture della città, donandole così una diafana consistenza metallica, che stride con le vivaci cromie verdi della vegetazione in primo piano.

Esasperazione formale e cromatica  fanno di El Greco un precursore dell’Espressionismo, una delle avanguardie storiche del Novecento, caratterizzata dall’intento di lasciar confluire nell’opera le emotività dell’artista.

Il linguaggio di Domínikos Theotokópoulos è segnato dall’intento di tradurre la sua tormentata interiorità in visioni svincolate dalla corporeità più realistica, per avvalersi invece di una suggestiva aura soprannaturale. I suoi dipinti sono dotati di una fervida enfasi visionaria, si nutrono di vivi contrasti chiaroscurali e di  toni concitati e dinamici, in un crescendo di tensione compositiva che investe il suo operato di una vibrante drammaticità e che rende il pittore un attento e appassionato interprete di quell’accesa spiritualità che permea gli ambienti religiosi toledani.  

San Lorenzo de El Escorial

Restando in Spagna, nel villaggio Escorial, a circa 40 Km da Madrid, nel 1563 Filippo II dispone l’innalzamento di un grandioso complesso dedicato a San Lorenzo. I lavori proseguono spediti fino al 1585, per poi riprendere nel XVII secolo con l’aggiunta del Pantheon, destinato a custodire le tombe dei sovrani spagnoli. Si tratta di una costruzione imponente e austera, provvista di torri angolari e dominata, al centro, dalla presenza di un’ampia chiesa a croce greca sormontata da una cupola e affiancata da due svettanti campanili.

L’Escorial si distingue per la sua vocazione polifunzionale assolvendo sia alla funzione religiosa di monastero, sia a quella politica, segnata dalla presenza del palazzo reale. Al suo interno trovano posto dipinti, arazzi e statue attestanti il fervore culturale di quegli anni. Tra gli artisti italiani impiegati nella decorazione dell’Escorial si ricordano Federico Zuccari, Luca Cambiaso e Pellegrino Tibaldi, grazie ai quali la maniera italiana si diffonde anche in Spagna. Filippo II e i suoi successori, inoltre, hanno cura di far pervenire in questo grandioso complesso opere provenienti da ogni dove, quali un Crocifisso marmoreo di Benvenuto Cellini e valorosi dipinti di Bosch, Dürer, Ribera e Velázquez.

Nel tardo XVII secolo si rileva anche la presenza del napoletano Luca Giordano, che prosegue la decorazione di questo prestigioso complesso insieme ad altri artisti della sua generazione.  

La “Scuola di Fontainebleau”

Spostandoci in Francia, la scena artistica è qui dominata dall’influente mecenatismo di Francesco I, il sovrano che aveva già accolto nella sua corte Leonardo da Vinci. Intorno alla sua carismatica personalità converge un gran numero di artisti e intellettuali, attirati dal raffinato contesto francese. Inoltre, nel 1527, Francesco I decide di tramutare un antico castello situato nella foresta di Fontainebleau in una sontuosa residenza destinata a coltivare i suoi interessi culturali. Quest’occasione gli consente di convocare un gran numero di artisti tra i più affermati del tempo, quali gli italiani Rosso Fiorentino, Francesco Primaticcio (talentuoso allievo di Giulio Romano) e Benvenuto Cellini. Attraverso il loro operato, la corte francese si apre alle componenti classiche del naturalismo rinascimentale rivisitato dal gusto manierista. Al tempo stesso, tale linguaggio si va arricchendo dai molteplici stimoli forniti dall’elegante ambiente francese, pervenendo così a uno stile inedito, colto e raffinato, fondato su un’accurata ricercatezza ornamentale.

Questo nuovo orientamento artistico investe ogni aspetto della ristrutturazione del palazzo: dall’architettura ai scenografici allestimenti di pitture e stucchi, dai decori scultorei agli arredi interni, fino a interessare anche l’oggettistica, come rivela la celebre Saliera di Francesco I, realizzata da Benvenuto Cellini tra il 1540 e il 1543. Il suntuoso manufatto, in ebano, oro e smalto, può considerarsi un capolavoro dell’oreficeria celliana, segnato da quell’amore per il bizzarro e l’eccentrico, nonché dalla virtuosistica abilità esecutiva del suo artefice.

 Giuseppe Arcimboldo (1526-1593)

Un altro rinomato centro di diffusione del manierismo europeo è fornito dalla corte di Rodolfo II, re d’Ungheria e di Boemia, eletto imperatore nel 1576. Qualche anno dopo, nel 1583, il sovrano sposta la residenza imperiale da Vienna a Praga, città ritenuta più sicura a fronte della minaccia turca, nonché più idonea alle sue esigenze di riservatezza.

La corte di Praga si pone da subito come un vivace centro culturale, dove l’eclettico mecenatismo di Rodolfo II attrae artisti originali e innovativi. Tra questi figura, in particolare, il milanese Giuseppe Arcimboldo, già invitato a Vienna da Massimiliano II e poi approdato a Praga al seguito del suo successore.

Tra lo sfarzo e le meraviglie della corte boema, Arcimboldo trova un ambiente congeniale al suo estroso intellettualismo ed è qui che concepisce alcune delle sue più celebri creazioni, come le teste allegoriche raffiguranti le quattro stagioni e i quattro elementi.

Nel Ritratto di Rodolfo II in veste di Ventumno, dipinto nel 1591, l’artista dà voce al sogno del sovrano di incarnare il ciclo delle stagioni e lo rappresenta come Ventumno, divinità etrusca protettrice della natura e dell’alternarsi delle stagioni. L’immagine è ricavata da un sapiente accostamento di fiori, frutta e ortaggi, tutti rigogliosamente freschi e maturi, a indicare la feconda prosperità del governo di Rodolfo II. Quasi pare di scorgere l’imperatore nelle sue fattezze reali, emerse nonostante  questi sorprendenti accostamenti, consentendoci di coglierne appieno l’espressione compiaciuta e la severa austerità regale.

L’inesauribile e ironica fantasia dell’opera di Arcimboldo si presta a una lettura attenta, tesa a svelare l’intrigante rapportarsi tra la singola parte e il tutto, in una perenne sintesi che ripropone gli equilibri cosmici dell’universo, stupendo di volta in volta l’osservatore. Dinanzi ai suoi dipinti, inoltre, possiamo leggere il graduale svanire della cultura umanista, poiché con lui la figura umana cessa di essere l’assoluta protagonista del creato, confluendo invece in una giocosa molteplicità di oggetti naturali straripanti di vita.    

Mariaelena Castellano

Martin Lutero e la riforma protestante

Martin Lutero (1483-1546) nasce in Germania, a Eisleben, da una famiglia di contadini. Divenuto monaco agostiniano, si dedica agli studi teologici e diventa professore a Wittenberg.

Persuaso della necessità di opporsi al crescente malcostume della Chiesa, sempre più inserita in affari politici, Lutero punta al raggiungimento di una fede profonda e sincera. Sconcertato, in particolare, dalla pratica ecclesiastica della vendita delle indulgenze per l’ottenimento del perdono divino, nel 1517 rende pubbliche le sue 95 tesi avverse a tale consuetudine e, in generale, alla corruzione della Chiesa. 

    Lucas Cranach il Vecchio,     Ritratto di Martin Lutero, 1529

La sua ribellione alla commercializzazione della fede e al principio dell’infallibilità del Papa provoca uno sconvolgimento senza precedenti, con una spaccatura non solo religiosa, ma anche politica.

Nel 1529, la riforma luterana viene definita “protestante” poiché i seguaci del monaco agostiniano protestano di fronte alla richiesta di rispettare l’assetto religioso della Germania. Essi, infatti, ritengono che il loro messaggio non contrasta con quanto enunciato nella parola di Dio.  

Tra i punti essenziali della nuova dottrina protestante, vi è il riconoscimento dell’autorità della Sacra Scrittura, che ogni credente può leggere e interpretare da sé. Ragion per cui, Martin Lutero traduce la Bibbia dal latino, in modo da renderla comprensibile al popolo tedesco. A tal scopo, egli recupera i principali dialetti parlati in Germania e, grazie alla grande portata divulgativa della sua traduzione biblica, contribuisce alla creazione di una nuova lingua, ponendosi come uno dei principali artefici del tedesco moderno.