A Zurigo, nella neutrale Svizzera, nel 1916, un gruppo di artisti e intellettuali, complice lo sfondo del Cabaret Voltaire(*), dà vita a una delle più singolari esperienze culturali: il Dadaismo, o meglio, semplicemente “Dada”, con il rifiuto del suffisso -ismo, non paventato. Espression-ismo, Cub-ismo, Futur-ismo: -ismo accomuna le denominazioni delle precedenti avanguardie, ma in questo caso, non si rivela adatto alla volontà di distinguersi non solo dall’arte del passato, ma anche dal panorama artistico più recente. 

“Dada non significa nulla”: così recita il Manifesto del gruppo, stilato nel 1918. Partendo da questo assunto, si può comprendere lo spirito sovversivo dei dadaisti, la loro forma di protesta verso la società contemporanea, verso le convenzioni e le ideologie prevalse finora nell’ambito culturale.  

Dada è tutto ed è niente. E´ l’azzeramento di ogni cosa. E´ semplicemente un non senso, perché non intende porsi in modo razionale e non vuole dotarsi di alcuna spiegazione. La stessa genesi del nome mostra il desiderio di svincolarsi dalle regole prefissate: Da-da nella lingua russa e rumena significa due volte “sì”, in tedesco significa due volte “questo”, mentre nella lingua italiana e francese corrisponde ai primi suoni pronunciati da un bambino. Seconda la versione più accreditata, questo nome è stato scelto aprendo a caso una pagina del dizionario Petit Larousse, sposando così la componente della casualità, che si rivelerà fondamentale nei percorsi espressivi degli artisti Dada.   

Casualità, ironia e provocazione sono alcuni degli aspetti più significativi di questa nuova avanguardia che nasce dalle macerie del primo disastroso conflitto mondiale. 

Dinanzi all’orrore bellico che ha devastato l’Europa, il Dada sceglie di intraprendere una strada nuova, che rompa totalmente con il passato e con la tradizione, come a voler prendere le distanze da tutto ciò che ha condotto alla follia della  guerra. 

A prevalere è dunque un atteggiamento di stravagante irriverenza, in cui emerge il desiderio di allontanarsi da ogni riferimento precedente, per sperimentare così nuove e audaci direzioni, che si riveleranno fondamentali nei successivi sviluppi artistici del secondo Novecento. Difatti, se l’esperienza Dada si estingue in pochi anni, confluendo in altre significative tendenze, la sua vasta eredità resta un imprescindibile riferimento anche nell’incalzante percorso culturale che contraddistingue l’odierno panorama culturale

Con la sua irrispettosa e giocosa provocazione, Dada ha stravolto ogni cosa: ha divertito, stupito e deriso; ha osato, sperimentato e rinnovato. Le sue modalità espressive sono dunque destinate a restare dei semi fruttuosi, delle costanti fonti d’ispirazioni per gli artisti più innovativi delle future generazioni.

Tra le personalità di rilievo di questa corrente figurano il poeta e saggista rumeno Tristan Tzara e gli artisti Hans Arp, Marcel Duchamp e Man Ray, diversificati l’uno dagli altri dalle loro personali modalità espressive, ma accomunati dallo spirito ironico e canzonatorio di Dada.

Hans Arp (Strasburgo, 1887 – Basilea, 1966)

Hans Arp, forte di una formazione artistica aggiornata e complessa, a contatto con le personalità più rilevanti del tempo, mette a punto un linguaggio estremamente originale, fondato sul caso e sulla spontaneità.

Il suo dadaismo è pervaso da un fine lirismo intellettualistico, che non gli impedisce di osare vie nuove e di stravolgere tutti i canoni rappresentativi. Si osservi, ad esempio, il noto Ritratto di Tristan Tzara (1916-17), dove il soggetto è intuibile soltanto dal titolo. 

L’opera, realizzata assemblando rilievi in legno policromo, prende le distanze dalla figuratività per nascere da un libero e casuale accostamento di forme e colori, giacché secondo il pensiero di Harp ogni oggetto, e dunque ogni lavoro artistico, non deve essere chiamato a rappresentare nulla, se non sé stesso. 

Ne deriva un ritratto capace di suscitare reazioni tra le più discordanti, dove l’armonia di incastri e cromie svela l’abile regia compositiva dell’artista.

Marcel Duchamp (1887-1968)

La carriera del francese Marcel Duchamp prende avvio da un percorso fortemente influenzato dalle esperienze cubo-futuriste, per poi approdare all’estro provocatorio della corrente Dada. 

Già nel 1913 con Ruota di bicicletta, Duchamp anticipa lo spirito irriverente di Dada e propone un primo esempio di quello che sarà definito un ready-made, pronto all’uso, ovvero un oggetto prelevato dal suo contesto, per essere ripensato e proposto come opera d’arte. Così, una ruota capovolta e poggiata su uno sgabello assume un valore artistico, anche se risulta priva di alcuna realizzazione manuale da parte dell’artista. 

Duchamp, inoltre, gioca con le funzioni dell’oggetto scelto: la ruota posizionata al contrario non risponde più al suo normale utilizzo, ma può essere fatta girare dal pubblico, coinvolto dunque in un processo dinamico insito in quello che può essere anche definito come uno dei primi esempi di installazione artistica. 

Qualche anno dopo, nel 1917, oramai nel pieno dell’esperienza dada, Marcel Duchamp osa ancora di più con il celebre ready-made Fontana, un orinatoio capovolto su cui si firma con uno pseudonimo e appone la data, proprio come se si trattasse di un’opera d’arte. 

L’opera desta da subito scandalo e polemiche, ma Duchamp mantiene salda la sua posizione: l’artista non è chiamato soltanto a fabbricare un’opera con le proprie mani, ma può esprimere l’artisticità anche attraverso la sua scelta. Egli infatti può scegliere un oggetto qualsiasi per decontestualizzarlo e donargli così una nuova vita.

Per ironia della sorte, l’opera originale viene persa, giacché durante un trasloco gli addetti, ignari di avere tra le mani un’opera dada, lo buttano.  

Man Ray (1890-1976)

Americano di nascita, ma di cultura e origini europee, Man Ray abbraccia la poetica Dada per spingerla in una direzione sempre più innovativa. 

Ispirato da Duchamp, nel 1921 propone un ironico ready-made: “Cadeau”, dono, con un titolo che sembra alludere ai rigidi formalismi e alle etichette convenzionali borghesi. 

L’opera consiste in un ferro da stiro sulla cui piastra sono conficcati dei chiodi con il conseguente venir meno della possibilità di assolvere alla funzione di stirare. 

Negli anni successivi Ran May si dedica con fervore alla fotografia, portando avanti degli interessanti esperimenti di immagini astratte create nella camera oscura. Da un errore casuale, infatti, egli perviene alle note “rayografie”, così chiamate in riferimento al suo cognome. Non si tratta di fotografie, ma di elaborazioni di oggetti poggiati direttamente sulla carta fotosensibile e poi esposti alla luce; ne deriva una rappresentazione in negativo, dove gli oggetti corrispondono alle aree scure, mentre la carta risulta bianca, in quanto colpita dalla luminosità.

Man Ray coglie l’aspetto dinamico e il potenziale creativo di queste sperimentazioni e le rielabora puntando a svelarne un’artisticità svincolata da regole e convenzioni. 

In realtà, questi procedimenti tecnici avevano preso avvio sin dagli anni Trenta dell’Ottocento, agli albori della fotografia, ma è Ray a portarli al successo con una vasta divulgazione. Egli intuisce le ampie possibilità espressive delle sue rayografie e le pone alla ribalta in quanto opere uniche e innovative. 

La sua vena sperimentale investe anche i processi di sviluppo delle fotografie, come si evince dal celebre scatto “Violon d’Ingres” (1924), una foto in gelatina d’argento modificata in fase di stampa. 

Il titolo dell’opera si traduce in “Il violino di Ingres” e questa espressione nella lingua francese fa riferimento all’hobby del pittore, ovvero il suonare lo strumento del violino. 

La scena è dominata da una donna raffigurata di spalle, la cantante Kiki,  con chiara e ironica allusione al dipinto “Bagnante di Valpincon” realizzato da Ingres nel 1808.

Sulla schiena nuda della donna, inoltre, in fase di stampa Ray appone con la china due “effe”, a mo’ di fori di risonanza, in modo da equiparare il corpo della modella a un violino. Ne consegue, non senza intento provocatorio, che come il violino risulta l’hobby di Ingres, la sensuale cantante Kiki rappresenta l’hobby di Ray. 

Con queste manipolazioni l’artista riscatta la fotografia dai confini di strumento finalizzato alla mera riproduzione documentaristica, per esaltarne piuttosto il ruolo creativo, con importanti conseguenze che ne segneranno il percorso espressivo dai decenni successivi ad oggi.  

M. Castellano

Il Cabaret Voltaire 

Il Cabaret Voltaire è un locale d’intrattenimento fondato il 5 febbraio 1916 a Zurigo, da un regista e da un gruppo di artisti tedeschi.

Il nome scelto per questa sala retrostante  una piccola taverna è un omaggio al celebre filosofo illuminista e alla sua sagace denuncia delle stupidità umane. 

Sulla scia delle serate futuriste, il Cabaret Voltaire, che fa da cornice alla nascita del movimento Dada, si apre a una forte sperimentazione culturale, proponendo spettacoli eccentrici, con rappresentazioni estemporanee, letture di testi e poesie, esposizioni artistiche, musiche e danze concitate.

In quegli anni Zurigo è meta di intellettuali esuli provenienti da ogni dove, così l’invito a partecipare a questo momento di risveglio culturale non tarda ad attirare un gran numero di artisti e letterati aperti all’idea di lasciare un contributo innovativo. Ne derivano eventi segnati da una spiccata verve creativa, spesso irruente, con momenti di scandalo che non mancano a destare ferventi animosità nel pubblico. 

L’ avventura del Cabaret Voltaire, dura appena cinque mesi, ma racchiude in sé le più innovative tendenze del tempo, fondamentali punti di partenza per i successivi sviluppi espressivi della cultura internazionale.

La cospicua eredità di questa singolare esperienza viene raccolta e declinata dal movimento Dada, per rivivere così attraverso le sue originali e ironiche sperimentazioni.